Primo Maggio nel Cilento, tra lavoro nero e sfruttamento

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Primo Maggio nel Cilento, tra lavoro nero e sfruttamento

La comunità di Felitto è dedita all’ingordigia, ai soprusi di chi crede viga ancora il tempo dei baroni e di chi si fa forte della debolezza degli umili di cuore. In questa sede non voglio discorrere delle dinamiche clientelistiche che da circa sessant’anni dominano la ‘democrazia’, non voglio neppure parlare delle ingiustizie a cui siamo sottoposti; oggi scrivo per prendere le difese di un onesto cittadino che chiamerò Tizio. Qualche giorno fa Tizio, passando con la propria autovettura nella periferia del paese, si soffermò a commentare il lavoro in nero, dunque illegale, ed irritato dalle tasse che lo stato fa gravare su di lui che le paga, si limitò a fare un’innocua battuta. Lo sfruttatore del lavoro in nero, che chiamerò Sempronio, lo inseguì con l’automobile fino a piazza Mercato dove pubblicamente assestò al volto di Tizio tre ceffoni umiliandolo davanti alla gogna paesana. I paesani giudicano gli atti, i paesani non conoscono tutte le vicissitudini e così a Tizio oggi rimane l’onta dell’affronto subito e per lui non ci sarà una giustizia poiché dalla storia è stato abituato a subire in silenzio, senza alcuna possibilità di rivalsa. Mafia e Camorra non sono solo associazioni a delinquere, sono soprattutto questi atteggiamenti omertosi e quest’insana prepotenza che investe persone come Sempronio di diritti obsoleti, anticostituzionali persino per gli ex invasori savoiardi.

Come potrà mai risollevarsi il nostro territorio se questi atteggiamenti a stampo mafioso non verranno stroncati sul nascere? Come potremmo sentirci liberi di esercitare la legalità in un paese che ha fatto della piccola delinquenza la propria legge? In questi anni ho scelto il silenzio giornalistico perché credevo che la mia gente non meritasse più nulla, mi sbagliavo! La mia gente merita giustizia e non riesce ad ottenerla usando le proprie armi, perché la mia gente non ha armi, è rassegnata a subire. Gli ideali giacciono nell’impossibilità di risorgere, in questo spaventoso silenzio che cheta tutto, ma agita il mio animo, offende la dignità dei miei paesani. Scrivo per i miei contadini scordati nell’isolamento delle campagne e scrivo per quest’atto di ribellione stroncato sul nascere dall’arroganza. Io mi sento offesa e ferita, e partecipo al dolore che alberga nell’animo di un ribelle. Non ho mai visto atti di civiltà in questo paese, la legalità è un atto d’amore verso la propria terra. Non lasciamo solo Tizio, aiutiamolo a denunciare perché la sua solitudine ci appartiene e se Tizio verrà isolato saremo ancora una volta sconfitti dai bruti e meriteremo un futuro di fallimenti. Che dignità c’è nella violenza? La violenza non ha mai impedito alla giustizia di fare il suo corso, la violenza ha solo offeso l’umanità, ma questa ha i suoi percorsi e anche nella miseria ritrova la forza per essere simile solo a sé stessa. Non progrediamo, nell’avanzare dei secoli regrediamo verso l’abisso della miseria; la nostra società non si muove ed emula i monti Alburni nella sua fissità, non riesce ad aprire le porte alla civiltà, non riesce a capire che cosa siano libertà e democrazia, la mia società è quel medioevo feudale mai abbandonato, vive nell’oscurantismo dei “signorotti” impettiti che cernono il destino di tutti, perché segretamente hanno bisogno della nostra miseria materiale per macinare danaro pubblico. Viviamo in questo incomprensibile assistenzialismo senza renderci conto che invece di salvarci ci stanno avvelenando giorno dopo giorno, che per ogni pensione ‘rubata’ alla stato, diventiamo sempre più poveri e schiavi di chi ha fatto della nostra ignoranza il proprio potere.

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