Saverio Carelli: il “poeta contadino” di Celle di Bulgheria
| di Giuseppe Conte“Rivalutare la cultura locale” è un sano tentativo per dar lustro ad una terra spesso dimenticata nelle sue doti più nobili. Il lavoro proposto in questo articolo, scaturisce dalla mano di una giovane professoressa del Golfo di Policastro, Cinzia Sapienza, che condivide la sua passione per questa terra tramite ricerche e contributi verso il dialetto e la letteratura locale. Giuseppe Conte
La poesia in “dialetto cilentano” è uno dei settori culturali più affascinanti nel panorama culturale locale, spesso lasciato alla salvaguardia dei soli stessi autori.
Negli ultimi anni si sta riscontrando un crescente interesse sulle voci poetiche cilentane anche grazie a svariate iniziative collettive organizzate nel territorio; la poesia in genere è espressione della società o un vero e proprio specchio della realtà che si vive e, nel caso di oggi giorno, l’immagine di un mondo teso sempre più all’omologazione e all’abbattimento di differenze anche culturali. Ecco perché è importante soffermarsi su chi ancora afferma il distacco da questi fenomeni esprimendosi con la sua unica e inimitabile sensibilità, o col dialetto strettamente locale quanto più possibile lontano dall’italiano. Saverio Carelli è un esempio di questo tentativo di attaccamento alle proprie radici peraltro permeato da un’umiltà che da sempre ha distinto il popolo cilentano. Tutte le volte che gli è stata fatta un’intervista o nei momenti in cui ci si è trovati a parlare della sua attività poetica, questi si è sempre preoccupato in primis di specificare il suo ruolo di “poeta contadino” e quindi di mettere sempre in luce il forte legame tra la terra e la sua sensibilità di poeta. Leggere la raccolta di versi in dialetto cellese “Pensieri del cuore” è un po’ un incontrare anche nostalgie e rimpianti, dolore e ironia. Tuttavia è da contrassegnare che persino dalla lingua di quest’autore fuoriesca un adeguamento alla realtà moderna, e di conseguenza abbiamo un linguaggio ibrido, ossia risultato di “adattamenti forzati” alla lingua madre e dialetto. In particolare nel seguente brano, dove il lessico più puro verte su termini tecnici della sfera agricola, si nota una costernazione di fondo verso l’atteggiamento di chi butta via come se nulla fosse ogni cosa o tutto ciò che è destinato a perire, che finisce per esser relegato e non considerato più: ecco uno dei motivi che inevitabilmente porterà l’idioma locale ad una progressiva scomparsa, accantonando le gesta del passato negli anfratti della memoria o in qualche pagina di qualche libro “strumento arcaico e rudimentale” per una generazione troppo attenta a seguire l’avvento del progresso.
Cavallu sfurtunato
Chi brutta stella
Ca teni nu cavallo.
‘Nd’a’a giovinezza
Ppi su manteni amico
‘u inchin’i’ carezze,
zullett’ ’i zuccaro
sciuscelle, vrenna:
adda tira’ ’a carrozza.
Na vita nun c’è male
‘a giovinezza.
Passanu l’anni
Viecchiu si faci
E i forzi venin’a manca’,
s’ausa ppì nu pocu lu scurriazzu,
iustu ppì li cava’ chiddu ca resta,
ma po’ ppi’ forza ‘nci voli
n’animali giuviniellu
e u viecchiu?
‘U viecchiu lu portanu ‘u maciellu.
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