1946-1948: l’ora italiana dello Stato costituzionale

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1946-1948: l’ora italiana dello Stato costituzionale

I diritti fondamentali nella società pluralista italiana e nella nostra Costituzione del pluralismo

Nel 1946-1948, è scoccata l’ora italiana dello Stato costituzionale. Da allora, la responsabilità della teoria dello Stato di diritto è divenuta maggiore.

Lo Stato costituzionale è un modello, accolto da varie nazioni ed estesosi a partire da date come il 1776, 1789, 1831, 1848, 1946, in una area euroatlantica di produzione e di recezione. Il risultato fu ed è rappresentato non solo dai documenti costituzionali, ma anche dai principi costituzionali non scritti, come si sono svolti nell’ambito della giurisprudenza delle corti costituzionali europee e pure del Tribunale dei Diritti dell’uomo di Strasburgo e della Corte di giustizia del Lussemburgo. 

La premessa, antropologica e culturale, di questo modello di Stato è da scorgersi nel valore della dignità umana; la conseguenza organizzativa di siffatto modello è data dalla democrazia pluralistica. Quello Stato è Stato di diritto, Stato sociale e “Stato culturale”. Il modello di “Stato costituzionale” è regolamentato dal principio della separazione dei poteri sensu stricto di Montesquieu e da quello della divisione dei poteri sensu lato, ossia della “divisione dei poteri nella società”, realizzata, ad es., nella radiodiffusione e nella televisione pluraliste. Esso viene assicurato mediante il contributo di una magistratura indipendente e di una sfera pubblica pluralistica, che può incessantemente ricostituirsi come tale attraverso i diritti fondamentali del singolo: dalla libertà di religione a quella di corteo, dalla libertà della scienza e dell’arte a quella economica in quanto parte della economia sociale di mercato, che ancora attende di essere indirizzata al rispetto della ecologia. 

Il modello di “Stato costituzionale” non si forma solo sulla base di testi giuridici: esso vive pure in forza di “testi costituzionali” sensu lato, come i “classici” di Locke e di Montesquieu, i Federalist Papers, la filosofia di Kant e, oggi, di Popper.

Sono, non di rado, gli artisti ad essere da stimolo per filosofi, giuristi e politologi. L’interrogativo sollevato da Brecht: “Tutto il potere dello Stato emana dal popolo, ma dove va?”, deve ancora essere ragione di inquietudine. Beethoven decise di non dedicare la sinfonia chiamata “Eroica” a Napoleone, quando egli si autoincoronò imperatore: orbene, detta decisione ha spiegato maggiore effetto sul movimento delle “Idee del 1789” di qualunque trattato filosofico-giuridico. Le riflessioni di Havel sulla “verità” sono uno dei contribuiti più recenti al modello dello Stato costituzionale e hanno, persino, accelerato il processo che ha portato alla svolta storica (Wendejahr) avvenuta nel 1989. Si può ritenere che il motto “noi siamo il popolo”, adottato dai tedeschi orientali, durante la rivoluzione pacifica del 1989, consentaneo alle posizioni di G. Buchner – La morte di Danton – abbia valenza costituzionale sensu lato; il regime totalitario della SED crollò: la via verso la riunificazione, accolta dalla pubblica opinione con favore, era libera. 

E a questi contesti culturali si deve sempre pensare, nel momento in cui si valuta il processo di creazione del modello di “Stato costituzionale”. Essi “dischiudono” e ininterrottamente “modificano” i testi giuridici. La costituzione non è solamente un testo giuridico o un’opera normativa, ma è espressione del grado di progresso culturale, strumento di rappresentazione culturale del popolo, riflesso della sua eredità culturale e fondamento delle relative speranze. Le costituzioni viventi, come opera di tutti gli interpreti costituzionali della c.d. società aperta, sono, piuttosto, per oggetto e per forma, la manifestazione e la mediazione della cultura, il quadro per la (ri)produzione e per la recezione culturale. L’immagine di Goethe, riproposta da Hermann Heller, è la enucleazione più felice del fenomeno in questione: la costituzione sarebbe una “forma plasmata, che si sviluppa vivendo”. Per questo, il pensiero giuridico, impostato secondo principi della comparazione, viene concepito come filosofia del diritto comparata dei testi e della cultura.

La filosofia del “razionalismo critico”, di Karl Popper, costituisce la cornice teorica della dottrina del modello dello Stato costituzionale e permette di parlare di una “costituzione del pluralismo”. 

Popper stesso ha ammesso di essere un “pluralista” e ha elaborato il concetto filosofico di “società aperta”. Uno dei punti centrali della “società aperta” consiste nel fatto che essa non ha mai canonizzato alcun “filosofo di regime” e che, nell’affermare il principio del “pensiero continuamente aperto alle alternative”, resta aperta pure ad altri filosofi. Anche la filosofia del diritto, in quanto tale, ha un proprio “status” di autonomia, così da evitare qualsivoglia posizione di subordinazione rispetto a singoli orientamenti filosofici. Comunque, il razionalismo critico di Popper riesce a chiarire, col suo metodo del “trial end error” e del “social piecemeal engineering”, cosa sia il focus dello Stato costituzionale. Il suo pensiero ha affrontato alcune critiche, in specie provenienti dal movimento ecologista, in ordine ai “limiti della tolleranza”, sulla scorta della riflessione per cui ogni società aperta necessita di essere fondata su “basi culturali”, pena il suo disfacimento. Del resto, risolvere in termini filosofici il problema del mercato riveste una significativa importanza. 

Preme dire, inoltre, sotto un profilo sempre metodologico, in relazione al paradigma di sviluppo dei livelli di testo, che la realtà costituzionale diviene mediamente comprensibile, grazie ad una analisi dell’incremento dei livelli di testo compiuta con metodo comparativo, sul piano sia spaziale, che temporale.   

Il nesso tra diritti fondamentali e società pluraliste

Non è possibile discutere in merito ai due argomenti se non trattandoli in stretto rapporto: ed infatti, la garanzia dei diritti fondamentali conduce, sul piano sociale, alla fondazione di società composte pluralisticamente, mentre i diritti fondamentali sono indispensabili a tali società come strutture di base, secondo le forme di manifestazioni disegnate dai testi e dalle teorie. Da un esame circa i tratti peculiari dei diritti fondamentali, si desume che il punto di partenza si individua nella dignità ontologica, universalmente riconosciuta, dell’uomo, basata sulla c.d. Objektformel, di Kant, secondo cui “Nessuno può divenire oggetto dell’azione dello Stato”. 

La dignità umana si articola in diversi diritti fondamentali del singolo. La democrazia pluralistica nello Stato costituzionale ne è la conseguenza organizzatoria, la qual cosa vuol dire che la dignità umana e la “forma di Stato” non possono essere concepite in maniera separata. In questo itinerario, ci si distanzia dal concetto “privato” di dignità, di matrice apolitica. Se la democrazia pluralistica compone una unità con lo status politicus del cittadino, allora le libertà democratiche pubbliche e alcuni diritti – ad es., il diritto di voto e i diritti fondamentali ad esso connessi, come la libertà di riunione – sono estrinsecazioni irrinunciabili della dignità umana. 

Il secondo campo di questioni attiene al pluralismo, inteso come “la molteplicità di idee ed interessi” temperata da alcuni estremi “limiti di tolleranza”. Nella prospettiva dello Stato costituzionale, questo pluralismo si traduce in clausole generali o speciali, trovando esplicazione nella qualificazione dei “voti particolari” dei giudici costituzionali, come “giurisprudenza del pluralismo”. Va notato, in proposito, che il “voto particolare” è ciò che in Germania si definisce Sondervotum, cioè “opinione dissenziente”; nella nostra lingua, si utilizza l’espressione “voto particolare”, perché abbraccia pure l’ipotesi della “opinione concorrente”, avanzata dal giudice che dissenta dal collegio sulla motivazione, ma non sul decisum. 

Però, la “Costituzione del pluralismo” si riflette nella teoria procedurale e pluralistica del bene comune, anche se lo Stato costituzionale non offre una nozione definitoria di bene comune, ma prevede soltanto i procedimenti atti a delinearlo. La salus publica e processu è una conquista specificatamente democratica, a prescindere da Cicerone. Rileva evidenziare che il pluralismo è costantemente messo in pericolo, a causa di processi di distorsione del potere, che giungono sino al settore della scienza, come le leggi sulla concentrazione della stampa – che sono tipiche “leggi del pluralismo” – ed altre leggi tese ad impedire gli abusi del potere economico, disciplinando, ad es., le intese commerciali. E’ compito della dottrina essere sensibile a simili deficit di pluralismo e curare, nella forma di una “politica delle risorse”, ad es., attraverso la tutela delle minoranze, che la società resti aperta, atteso che questa è la condizione che permette anche alla storia di essere intesa nell’insieme come aperta: il marxismo-leninismo ha tentato di “chiuderla”, ovverosia di “determinarla”, ma ha fallito su scala mondiale.

Conseguenze del superamento degli Stati totalitari da parte del pensiero pluralista e dello Stato costituzionale

Il 1989 è altra data cruciale per lo Stato costituzionale, soprattutto in chiave comparatistica.

Il “contratto culturale fra le generazioni”, di cui si era fatta esperienza, da quella data assume una dimensione globale, generando nuove responsabilità nei confronti di quello che si prospetta come un unico mondo della umanità.

Benché un pensiero costituzionalistico nella “prospettiva cosmopolitica” di Kant non sia stato ancora tracciato, tuttavia le domande che gli sono collegate appaiono già poste. Fra cui rientrano alcuni temi inerenti alla “nazione”, all’ “uguaglianza”, alla “dimensione” della democrazia. 

La molteplicità storico-culturale dell’Italia potrebbe rigenerarsi in forma giuridica se divenisse un “regionalismo realmente esistente”, e ciò rappresenterebbe un contributo alla “riforma delle istituzioni”, per cui il nostro Paese sta, oggi, lottando. Il regionalismo costituisce una manifestazione della “Costituzione del pluralismo”.

Pertanto, sino al 1989, le società “chiuse” hanno rappresentato, per le democrazie pluralistiche, il paradigma contrario e negativo. Oggi, dopo la caduta del “socialismo reale”, la responsabilità della “società aperta” è ancor più alta. Essa deve definirsi richiamandosi esclusivamente a se stessa, non può far riferimento al “male peggiore” degli Stati totalitari, ma deve garantirsi la sua identità, in sé e per sé. Essa deve assumersi principalmente alcuni doveri di portata mondiale: la responsabilità per il Terzo Mondo, la protezione dell’ambiente a livello globale, la tutela della pax mondiale e regionale, oggi, nuovamente necessaria, a fronte dei conflitti Russia-Ucraina e Israele-Palestina. Ciò può essere assicurato non più dal contrasto Est/Ovest e dalla relativa tradizione “dialettica”, ma da una sorta di società mondiale, depositaria della fiducia degli Stati, che hanno costituzioni pluralistiche, oltrepassando, al contempo, il conflitto Nord e Sud. 

Dal 1989, emergono due questioni:

1)come può la transizione delle società totalitarie, nella fase postcomunista, essere l’alba di una democrazia pluralistica?

2) non è necessario presupporre un contratto sociale, fra tutti gli abitanti del mondo, destinato a salvaguardarne la sopravvivenza secondo il rinnovato imperativo categorico di Kant, che Hans Jonas, ne Il principio di responsabilità, ha ampliato all’intera umanità: “Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con una esistenza futura degna dell’uomo, ovverosia con la pretesa della umanità di sopravvivere per un tempo illimitato”?

Per quel concerne il primo punto, va rilevato che è solo successivamente al declino del sistema socialista che si appalesano le difficoltà relative alla trasformazione entro gli Stati della ex Unione Sovietica e dei Paesi dello sgretolato blocco dell’Est: occorre preliminarmente “apprendere” la democrazia pluralistica. Lo Stato di diritto ha bisogno quotidianamente di notevole “esercizio”; e soltanto ora diviene intelligibile in quale misura la “società borghese” necessiti, ad es., di una amministrazione pubblica funzionante. Le difficoltà del passaggio nell’Europa dell’Est verso una “economia sociale di mercato” mostrano appieno come tutte le discipline fossero impreparate: mancava l’esperienza minima per riuscire a convertire l’economia pianificata in economia di mercato. 

La “costituzione come cultura”, anche come “cultura dei diritti fondamentali”, postula processi di evoluzione di lungo periodo, elaborati pur a fatica dalle democrazie occidentali. La filosofia del razionalismo critico implica uno sviluppo progressivo “congeniale” all’ottica di tali periodi di transizione: elementi di pluralismo strutturato, nell’Europa dell’Est, non possono essere costruiti se non progressivamente; i primi progetti costituzionali e le costituzioni, talvolta, precorrono la realtà, quasi fossero una “utopia concreta”. La “rielaborazione del passato” instaura problemi di natura particolare. 

Quanto alla seconda questione, giova sottolineare che si deve definire, oggi, un “contratto sociale mondiale”, come portato del classico contratto sociale di Locke e di Kant, relativo alle singole nazioni. Kant ha pensato il contratto sociale come fosse una finzione. Rawls ha, poi, ricostruito il contratto sociale per la nostra epoca, articolando l’immagine del “velo di ignoranza”. Oggi, ci si deve domandare se, nel segno dei diritti umani universali, non si debba agire come se tutti gli individui fossero decisi a edificare ciascuno il proprio Stato costituzionale nazionale, e a concludere – in esso e per il tramite di esso – un contratto sociale mondiale, un contratto, cioè di cui non farebbero parte unicamente beni come life, liberty, estate ovvero property, nel senso di Locke, ma anche la protezione dell’ambiente, i sostegni per la fame nel mondo, il presidio culturale delle singole identità nazionali e regionali. La società mondiale degli Stati costituzionali si legittima in virtù dei diritti universali dell’uomo e dei diritti nazionali del cittadino. La democrazia pluralistica è, oggi, il garante, mentre le nazioni sono, “nel complesso”, i fiduciari della vita e della sopravvivenza della umanità. Ciò richiede tanto alle forze creative delle società pluraliste e alla realtà dei diritti fondamentali. Questi sono chiamati a produrre enormi risultati, materiali ed ideali, oltre che a costituire e a mantenere le culture nazionali, anche opponendosi al desolante livellamento culturale mondiale, che dobbiamo alla globalizzazione delle informazioni e della comunicazione, con tutti i suoi risvolti negativi.   

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