Marina di Camerota, la comunità stordita per l’addio del proprio parroco: «Non abbandonarci»
| di Maurizio TroccoliC’è una comunità stordita, intontita, disorientata e probabilmente spaventata per la notizia ufficiosa del probabile addio del proprio parroco. Può sembrare un racconto di altri tempi, una semplice storia romanzata, soprattutto agli occhi di chi scruta le masse indistintamente confondendole e fondendole tra loro, senza distinzione tra quelle anonime e indifferenti con in mano la busta della spesa o la borsa dello shopping e quelle invece accomunate da un profondo e faticato sentimento di appartenenza e di comunità. Che ci si creda oppure no queste ultime necessitano di un pastore a cui affidano ansie, aspettative, vivacità e dolore. Il pastore è punto di riferimento, segno distinguibile di affidabilità e fiducia in un divenire opaco, confuso , sfuggente. Il pastore come strumento indispensabile ad esorcizzare debolezze e limiti tanto individuali quanto collettivi, grazie al quale più che mai il non senso si disvela in significati, messaggi, esempi, motivazioni e stimoli che, riaffidati alla gente, riacquisiscono il valore di una vitalità salvifica, che vale il riscatto di una collettività, al lordo delle rispettive soggettività.
Questo il quadro di una realtà in equilibrio che rischia di perdere il sostegno d’appoggio lasciando intravvedere l’istantanea di uno sfaldamento. In questo modo può essere comprensibile a più osservatori quale sia il valore di una guida che non è soltanto spirituale e che non vale solo come medicamento dell’anima o delle anime.
Marina di Camerota, angolo informale di un sud dalle mille contraddizioni, luogo di confine storico e geografico, porta aperta sul mare e verso lo straniero e perimetro penetrabile e frequentato da migliaia di racconti e convincimenti che nel mentre rafforzano i tratti identitari di chi vi abita, rendono al contempo questa gente più fragile e più vulnerabile. Don Antonio, il parroco, è giunto qui dopo che da decenni questa comunità è stata guidata dalle mani morbide e dal passo umile di don Osvaldo: l’uomo, il parroco piccolo che sapeva però rendere grande il più piccolo tra quelli che lo mettevano nelle condizioni di compiere gli impercettibili miracoli delle conversioni. Sempre iniziati da gesti e da comportamenti. Mai da prediche e parole. Poi la morte e l’arrivo di don Antonio.
Lui osserva questa gente, ne scruta le dinamiche, ricorda i nomi e ricostruisce le relazioni che accomunano l’uno all’altro. In breve riconosce il motivo di sottofondo di una comunità marina fortemente caratterizzata dal breve e intenso passato. Tocca con sapienza le corde sensibili delle potenzialità fin qui inespresse da tantissimi cittadini smaniosi di fare la propria parte per gli altri. Ed in poco tempo mette su una architettura sociale che funziona, che vibra e si sprigiona diffondendo positività fino agli angoli, ai vicoletti, alle case, ai giovani e a quanti fino ad allora sono rimasti a guardare. Il timore è che tutto questo possa crollare. L’ansia è che l’architettura multiforme e multicolore possa fare qualche crepa trascinando con se a pezzi le architravi e i mattoncini che oggi la tengono in piedi.
Questo giornale prova a registrare il battito ritmato del cuore di una comunità, la preghiera silenziosa che sorprendentemente può spuntare dal tavolino di un bar, dalla bottega di un commerciante o dalla finestra sul mare di una nonnina del luogo: la dignità silenziosa di giovani e famiglie che alla fragorosa iniziativa popolare o alla imbarazzante lettera da scrivere al proprio vescovo preferiscono l’esortazione sussurrata o la confessione onesta di uno stato d’animo concitato, fiduciosi però che possa partorire un gesto, un messaggio chiaro, capace di raggiungere chi di dovere.
L’amore verso questo sacerdote è tepore umano sincero, capace di rendere fertile la terra dove i semi della fede possano fare nascere bellissimi fiori. Che se ne abbia cura. Dei fiori.
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