Fede e superstizione a Marina (PARTE PRIMA)
| di Orazio RuoccoPossiamo mettere d’accordo fede in Dio e superstizione? I nostri avi ci riuscivano perfettamente. In fondo, senza voler sconfinare nel teologico (lungi una tal pretesa!) che ci porterebbe troppo lontano e la qual cosa non rientra nelle finalità di questo articolo, avere fede significa fare la volontà di Dio, sinteticamente amare il prossimo. Superstizione invece è “far fare a Dio ciò che si vuole”, quasi pretendere di imporre a Dio la propria volontà. In altri termini, la religione ha una valenza etica, la superstizione solo utilitaristica. Come si vede, messe così le due cose si sommano, si integrano e possono camminare di pari passo. Nella spicciola filosofia di vita dei nostri nonni probabilmente è entrato un illogico ma conveniente ragionamento di questo tipo che, sia ben chiaro, è comune a tanti popoli. Quale popolo o epoca non ha proprie credenze, tabù, pregiudizi, usanze irrazionali? Ma naturalmente, non essendovi regole fisse che uniformino i comportamenti superstiziosi, ogni popolo li vive secondo la propria specificità e le proprie tradizioni.
La superstizione è come una grande scatola magica che contiene di tutto: fortune, malocchi, disgrazie, miracoli, scongiuri. Un mondo irrazionale che è utile a comprendere le molteplici scorciatoie che l’uomo si è inventato per far fronte ai propri bisogni e alle proprie paure. Spesso la religione si è sposata e confusa con molte credenze superstiziose ed è stata vissuta a quel livello mentale. E’ questo mondo che vogliamo scoprire nella nostra civiltà marinara con l’occhio benevolo di chi l’ha osservato pian piano nella propria evoluzione dalla ingenua infanzia alla critica maturità.
La devozione verso Maria e San Domenico era molto sentita tanto è vero che nei giorni dell’anno in cui cadeva la loro festa i marinari si guardavano bene dal fare certi lavori come andare a pesca, fare i “libani”. Men che meno andare al mare che era ritenuta la cosa più blasfema e peccaminosa. Grande era il timore che le cose trattate in quei giorni andassero a male ed enorme il terrore di poter annegare a mare. E dire che alcuni tragici eventi, sicuramente fortuiti e occasionali, rafforzavano effettivamente questa convinzione. Il popolino inconsciamente li attribuiva all’ira della Madonna o del santo.
Ricordo quel 6 Luglio del 1962. Per quell’occasione festiva, Madonna del Carmine, era stata invitata la banda musicale di un Istituto per ragazzi orfani, abbandonati o in difficoltà. La loro età variava dai 10 ai 16 anni e venivano ospitati gratuitamente presso le famiglie più generose di Marina. Erano ragazzi un po’ sprovveduti, timidi, ingenui, bisognosi di affetto e di attenzioni. E pertanto grandi erano il calore e la simpatia che li circondava. Ma nonostante ciò l’imponderabile ebbe il sopravvento funestando quel clima di serenità e allegria
Il caldo e sonnecchioso pomeriggio di quel giorno fu scosso da un improvviso allarme lanciato dalla famiglia affidataria di uno di quei ragazzi: era scomparso e da un paio d’ore non avevano più sue notizie. La partecipazione dei marinari fu pronta ed immediata: partì subito una gara di solidarietà, una sorta del moderno programma “Chi l’ha visto?”. Tutti i vicoli e le spiagge furono meticolosamente setacciati. Improvvisamente una voce arriva in piazza: i suoi indumenti sono stati ritrovati sulla spiaggia della Marina delle barche. Il paese accorre tutto. I giovani pescatori approntano subito i soccorsi, un gozzo a remi con lo “specchio” per scrutare il fondale marino. Poco al largo della spiaggia la conferma: il suo corpo esanime quasi galleggia ormai irrigidito. Il dolore e lo sconforto attraversano il viso di tutti. Faticosamente i volontari tentano di metterlo a bordo ma non ci riescono. Lo portano teso come un tronco afferrandolo per un braccio ed una gamba accostato al fianco della barca. Le sue braccia sono ferme ed irrigidite come se stesse abbracciando una persona. Nel suo volto la morte ha chiaramente stampato la disperazione. Nel popolino si rafforzò ancora una volta e ancora di più la convinzione che quella era “na jurnata recurdebbele”. La festa proseguì e si concluse in un clima di mestizia e di tristezza anche perché i responsabili dell’istituto ritennero giusto andare via immediatamente con il loro fardello di preoccupazioni.
E come la replica di uno spettacolo di gran successo l’anno dopo, ma il 4 Agosto, avvenne una tragedia analoga. Erano le 15.00 circa di un pomeriggio assolato con la canicola mitigata da un forte vento di ponente. Anche in questo caso la notizia si diffuse in un batter d’occhio. Di porta in porta una sola voce: “S’è ‘nnegato uno a Calanca!”. E tutti a correre là, assiepati sulla “scalinatella” che portava all’arenile o sul belvedere sovrastante. Questa volta i carabinieri erano arrivati prima e nel mezzo della spiaggia già avevano coperto il corpo del poveretto con un lenzuolo. Il mare, quasi a simboleggiare la funesta ira del Santo, era particolarmente increspato e il vento ne accompagnava il suono dello sciabordìo delle piccole onde sugli scogli o sulla battigia. Nessuno sapeva chi fosse, fino a quando qualcuno ben informato colmò la curiosità della gente asserendo che trattavasi di “uno ri paese i coppa”. Lo sguardo smarrito e il silenzio tombale della gente fungevano da mesto corollario a quell’ennesimo tragico evento. All’improvviso uno fra i più anziani ruppe quel glaciale silenzio sentenziando con un tono quasi cantilenante :”Cheste so’ jurnate recurdebbeleeeee!!!”. Era il solito ritornello sempre ripetuto e sempre confermato dal popolino con piccoli cenni di assenso del capo. Non sapemmo mai chi fosse quello sventurato, ma poco importava.
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