Alcune riflessioni sulle genti antiche e lucane del Golfo di Policastro
| di Angelo GentileTutto il territorio del Golfo di Policastro è stato frequentato/abitato già in epoca preistorica: reperti del Paleolitico Inferiore rinvenuti in costa tra Capo Infreschi e Capo Palinuro e presso Scario. Altre tracce del Paleolitico Medio nelle stesse zone e sul monte Cervati Vallicelle. Per periodi più vicini quale il Bronzo Appenninico reperti importanti vicino Porto Infreschi e Scario, Sapri (grotta Cartolano e Carnale) e valico dello Scorzo. La scoperta intorno a Sapri rimanda ad un nodo di comunicazione tra le valli del Noce-costa ionica e tirrenica, cioè una via di comunicazione tra il Golfo di Policastro e il Golfo di Taranto o almeno di camminamenti di genti nomadi per l’attività predominante, la pastorizia, che vivevano nella zona del Siris e la vallata del fiume Noce, tenuto anche conto dei ricchi pascoli che costituiscono le valli tra il Monte Coccoviello Serralunga, Cocuzzo, Pannello, Juncolo e l’abbondanza delle acque per l’abbeveraggio del bestiame. Tanti storici parlano allora delle “vie istmiche”. Questi insediamenti si differenziano da quelli costieri per la presenza di numerosi gruppi di genti enotrie, non isolati, dediti all’allevamento del bestiame; gli insediamenti costieri per lo più erano frutto della colonizzazione greca a partire dal secolo VIII a C., prediligendo, tra le attività di sostentamento, la pesca e la raccolta di molluschi affiancata alla produzione e allo scambio di manufatti. La fase finale del Bronzo è tutt’ora in fase di studio, ma si ebbe certamente la diffusione dell’incinerazione che ha caratterizzato una certa unità culturale del periodo. Ugualmente poco conosciuta, per il Golfo di Policastro, l’età iniziale del Ferro, per la quale bisognerà attendere il VI secolo a C, in piena colonizzazione greca per avere testimonianze certe, quali la fondazione di Pixunte che utilizza monete in comunione con Siris, a parziale conferma di quanto sinora detto. A tale riguardo questo centro sembrerebbe più un insediamento indigeno ellenizzato, che un vero e proprio centro greco, perciò già esistente prima dell’VIII secolo a C.
Lungo la fascia costiera cilentana troviamo coloni greci sin dal II millennio a C per l’espansione dei traffici micenei, quindi relazioni commerciali tra la Grecia e le regioni meridionali, forse vi furono correnti migratorie dall’area orientale egea verso l’Occidente. I centri greci o di influenza greca, in Campania sorsero a diretto contatto con il mare, perciò in funzione essenzialmente di porto, e in ordine alla loro situazione geografica, si dividono in tre gruppi:
1) colonie fondate per il controllo delle rotte importanti;
2) colonie di archi costieri per sfruttare le risorse del retroterra;
3) subcolonie sorte alo sbocco di vie istmiche.
Poisedonia e Pixunte sono da annoverare al terzo gruppo. Relativamente a Pixunte, individuata nella Buxentum latina, odierna Policastro Bussentino, essa è di origine enotria ed era collegata alla Sirtide attraverso il fiume Bussento, Vallo di Diano (densamente popolato per l’abbondanza di pascoli) e la Valle del Sinni. Strabone la ricorda assegnando lo stesso nome al porto, alla città e al fiume. Prima del V secolo nessuno storico la cita, è, però, già presente nella numismatica del VI secolo. Secondo Diodoro Siculo, Micito, reggente e tiranno di Reggio e di Messina, tutore dei figli di Anassilao, vi inviò una colonia nell’anno 471-470, ma il centro era esistente come da numismatica, poi caduto in rovina a causa del crollo della città di Sibari (510 a C per opera della nemica Crotone) da cui dipendeva con la consociata Siri. La città fu abitata anche durante l’occupazione lucana fino al 280 a C. La certezza che la zona fosse importante per i traffici marittimi dei popoli del Mediterraneo, oltre che asserita da più storici, è confermata da un ritrovamento di resti di mattoni in Policastro, classificati di tipo velino del IV secolo a C. Possiamo asserire che i traffici dovevano essere estesi, abbracciando le colonie greche, affacciantesi sul Tirreno. Anche le monete, rinvenute un po’ ovunque, confermano questa tesi. La popolazione non s’era stanziata solo sulla costa, ma fruiva delle zone interne (chora) vuoi per trafficare con i popoli italioti, vuoi per la legna, il legname da costruzione, la pastorizia e, ovviamente l’immancabile agricoltura.
A partire dal V secolo, a seguito delle migrazioni dei Sanniti dal nord, fanno la loro comparsa i Lucani, appartenenti alle genti sannitiche, essi occupano (oltre che Poseidonia) siti d’altura come Roccagloriosa, Caselle, Sanza, Torraca alcuni dei quali già frequentati in precedenza, ma solo dalla metà del IV secolo tutta la regione vede lo svilupparsi di un sistema insediativo con abitati fortificati da imponenti cinte murarie tranne l’eccezione di Laurelli (Caselle in Pittari) che comunque è ben posizionata. Gli stessi popolano le campagne con fattorie e piccoli agglomerati rurali o “vici”, la cui vita è in funzione residenziale e produttiva con una durata dal IV al I secolo a C. Essi sono il nucleo vitale della società lucana del Golfo di Policastro, numerosi e disseminati intorno ai fiumi Mingardo, Bussento e Bussentino. La zona interna al Golfo rientrava sì nella fascia di pertinenza dell’insediamento greco, ma non distante dal territorio dei Lucani sontini (Sanza) e da Roccagloriosa, importante centro lucano. Secondo Plinio, Strabone, Dionigi di Alicarnasso e Cluverio si tratterebbe di Enotri che dominavano le terre fino al Sele e a sud Lao fino al fiume Bradano, praticamente, quella che più tardi verrà indicata come “Lucania”. Trattasi sempre di popolazioni mai omogenee, ma composite, ciò spiega denominazioni quali Itali, Morgeti, Siculi, Enotri ecc pur facendo riferimento alla stessa zona geografica con inconsistenti frontiere tribali e fluida situazione etnica: un gruppo di tribù appartenenti ad un unico ceppo di origine sannitica, indicato con il nome di “lucani”. E’ la convinzione di diversi storici antichi che sostennero l’invio nell’Italia Meridionale di più tribù come coloni per poter controllare questa regione ed eventualmente contrapporsi alla colonizzazione greca. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia scrive che l’Italia Meridionale era tenuta dai Pelasgi, dagli Enotri, dagli Itali, dai Morgeti, dai Siculi e in seguito dai Lucani nati dai Sanniti, comandati da Lucio da cui venne il loro nome. I confini con questo autore diventano più certi: dal Sele in giù con l’oppidum di Paestum, Velia Buxentum, Lao. Lo stesso sostiene Strabone riferendosi a Timeo, a Posidonio e ad Eratostene, il grande geografo-bibliotecario di Alessandria del III secolo a C. Per far fronte ad una calamità, o ad una concentrazione demografica, una parte della popolazione emigrava: è il caso dei Lucani che si allontanarono dai Sanniti e, dopo anni di lotta, intorno alla metà del IV secolo a C, divennero i veri padroni dell’entità regionale che prese il nome dal loro etnico. Essi si preoccuparono di presidiare e sfruttare le zone interne, avendo difficoltà espansive verso le coste, ove si scontrarono con i Greci, che le avevano occupate: tutto il litorale dal Golfo di Taranto fino alla foce del Sele, circumnavigando la Calabria. Strabone scrive, infatti, che i Greci ed i Lucani combatterono per lungo tempo tra di loro. In più occasioni l’autore parla dei Lucani come di un popolo dell’interno, che si spostava lungo itinerari dettati dall’esperienza della transumanza stagionale, per l’esigenza di pascoli invernali in pianura e di pascoli estivi con possibilità di abbeveraggio. Questo popolo, però, non compare nel minuzioso elenco delle popolazioni barbariche immigrate, statuito da Dionigi di Alicarnasso, vi compaiono bensì i Brettii (ribelli fuggiaschi), forse perché i primi non erano considerati barbari come i secondi. I Lucani erano organizzati per città/perno, intorno a cui ruotavano tanti altri piccoli stanziamenti in funzione economica (nuclei isolati di fattorie in zone di sfruttamento pastorale e agricolo e che, in momenti di tensione, potevano essere abbandonati per ritirarsi nei centri più grandi forniti di mura) e a volte in funzione difensiva (“loca munita” di tradizione liviana). Questi centri più piccoli, a volte solo stagionali, erano dipendenti e tributari delle città/perno. Il tutto nell’ottica di un’ottimizzazione del territorio, inteso come patrimonio da salvaguardare, sia in chiave economica che militare. Per educare i propri figli, a dar retta a Giustino e a Strabone, utilizzavano i pastori al loro servizio, chiamati Brettii, dopo la loro ribellione (anno 356 a C): “sic ad labores bellicos indurabantur”, ovvero come modello di vita pastorale, privi di servitù, senza inutili indumenti e lontani dagli usi e agi urbani. Sin dalla pubertà questi ragazzi vivevano nelle selve, fra i pastori, cibandosi delle prede di cacciagione, latte e di acqua di sorgente, così da temprarsi ad una vita difficile, dura, in cui solo i più resistenti e capaci riuscivano ad avere la meglio. La scissione tra Lucani e Brettii è avvenuta quando i secondi parteciparono alle scorrerie/azioni belliche a fianco dei primi, conquistando sul campo il diritto di parità. Alla scissione contribuirono i giovani lucani, addestrati “ab origine” della loro vita all’ “ars belli”, così come descritto, diventando protagonisti della maturazione sociale dei Brettii. La stessa presenza di Lucani all’interno dei Brettii impedì una risposta violenta della gente lucana e, nel contempo, fece riconoscere autonomia politica ai Brettii che si collocarono al di là del fiume Lao. Evidentemente il distacco avvenuto intorno alla metà del IV secolo, rappresentò una forma di ribellione politica contro l’aristocrazia lucana, la stessa che viveva nelle città/perno, in antitesi politica con i piccoli centri che sfruttavano il territorio, quando ormai molti Lucani risultavano ellenizzati e i contatti con l’elemento greco della costa era ben saldo, valendo la regola che un popolo forte a contatto con un altro più debole, ma maggiormente civilizzato (i Greci) tende a imitare quest’ultimo. I due popoli ci pervengono, ormai, divisi, secondo la testimonianza di Diodoro, nell’anno 346 a C, quando i soli Lucani attaccarono Taranto e nel 344 a C i Brettii si scontrarono con Turi: sono entità distinte, fermo restando che con il termine “Lucani” s’intende il complesso di più civiltà, raccolte in città/perno, quali i Bantini, i Sontini, i Consilini, gli Atini etc. Ciò induce a pensare a una politica non sempre unitaria, ma diversificata secondo le esigenze delle singole città, il che spiegherebbe il perché una parte dei Lucani combatte, ad esempio, al fianco di Alessandro il Molosso (340 a C), chiamato da Taranto, e un’altra contro; oppure, altri sono con Roma e tal’altri con Annibale. Livio asserisce che coorti lucane al comando di Gracco, devastarono la campagna del territorio lucano. Ancora, si potrebbe trovare una diversificazione più che per le singole città, per i partiti: gli oppositori si schierano comunque dalla parte dei nemici, nel tentativo/speranza di ribaltare la situazione socio politica. Nuova alleanza nel 298 a C tra Lucani e Romani, sempre per il timore dei Sanniti (terza guerra sannita). Intanto i plebei lucani, la “multitudo agrestium”, si allineano con i Sanniti e nel 296 a C si ribellano ai nobili, ma vengono “pacificati” con l’aiuto dei Romani. La partecipazione delle popolazioni lucane all’espansione romana, o almeno quella del partito degli aristocratici cittadini, permette di avere altra notizia sulla zona del Golfo di Policastro, riportata da autori latini nel ricordare i fasti degli eredi di Romolo. La popolazione dei campi, come detto, avversa a questa linea politica, gelosa della propria libertà e avendo da perdere pochissimo, sparsa com’era, tra le vallate e i monti della Lucania.
Dott. Prof Angelo Gentile, Già tutor per i docenti di storia, ricercatore storico e pubblicista.
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