Camerota, Coppola presenta ‘Qualcosa di bianco’: «E’ molto più di un libro»
| di Luigi MartinoCosa ci fanno insieme un gigolò, una vecchia arpia malata di cancro, un attore fallito, una cocainomane, un epilettico, una sensuale professionista col D.O.C., una narcolettica e un paraplegico nella stessa stanza? Certo, è scontato: fanno terapia di gruppo. Hanno in comune la malattia più terrificante di tutte: la depressione. Atroce e invincibile mostro che gli altri credono di curare a suon di “non abbatterti” e “non ci stai mettendo abbastanza impegno”. Il Dr. G., giovane e aitante analista, sprona i pazienti alla condivisione attraverso un metodo che prevede ventuno sedute collettive, durante le quali ognuno sorteg- gerà una lettera dell’alfabeto e racconterà le proprie emozioni partendo da una parola che avrà per iniziale la lettera estratta. Questo esperimento tragicomico è raccontato dalla penna dissacrante di una com- ponente del club dei depressi. Le vicende sono sospese tra sogno e realtà, proprio come la gabbia in cui la narratrice vive a causa della sua condizione fisica. Cosa succede realmente e cosa è solo il frutto della sua fantasia?
Che cos’è potenzialmente “interessante”? Provate a pensarci: niente di ciò che è troppo facile o già noto o già visto è “interessante”. L’interesse, ricorda Murphy Paul, nasce da una sfida possibile: quanto viene proposto dev’essere nuovo, complesso e comprensibile. Le persone devono sentirsi in grado di venirne a capo se ci si mettono, e ci si metteranno a patto di sentirsi in grado. Questo vuol dire che complessità e comprensibilità di un argomento o di un compito vanno, ogni volta, calibrate sulle conoscenze di base e sulle risorse delle persone da interessare. Ma, in primo luogo, le persone devono sentirsi incuriosite. E la sinossi di ‘Qualcosa di bianco’ è interessante quanto basta per stuzzicare la curiosità e consegnare ai lettori la chiave per accedere ad un gate nuovo. Se siete pronti a partire per un viaggio fatto di valigie pesanti e pillole di ilarità, allora eccovi di fronte alla copertina pallida e stila ‘macchina da scrivere’ del primo romanzo di Francesca Coppola.
Lei, 28 anni, si definisce «una divoratrice seriale di libri e film sin dall’infanzia». Queste passioni l’hanno traghettata verso il mondo del copywriting e della produzione audiovisiva, dove lavora da anni. Il suo stile narrativo si ispira liberamente alla vita quotidiana mixata agli “effetti speciali” della realtà cinematografica. E davanti alla gente sua, quella di Marina di Camerota, dopo la presentazione del libro a Roma, ha promesso che questa storia non si ferma alla carta stampata, potrebbe presto tramutarsi in una sceneggiatura avvincente che vede protagonista Libera e tutte le lettere dell’alfabeto, nessuna esclusa.
Giovedì sera la scrittrice si è raccontata al Negroni Therapy, per l’occasione pieno zeppo di sorrisi e mazzi di fiori. Ecco la nostra chiacchierata d’autore.
Cos’è “Qualcosa di bianco” ?
Io e il mio editor lo abbiamo definito “romanzo-serie”, perché è stato elaborato come un copione cinematografico e i capitoli sono riconducibili a delle “puntate”. L’ho scritto pensando a un progetto multimediale e sono già in moto per realizzare un lungometraggio. Ci tengo a precisare che la mia è una produzione totalmente indipendente e che Mondadori è il mio distributore ufficiale. Ho desiderato fare tutto da sola proprio per essere libera di declinare questo elaborato in più forme, quando e come mi pare.
Di cosa parla?
In sintesi: del potere della condivisione e dell’ironia. Proprio per questo, un altro mio desiderio è quello di trasformare “Qualcosa di bianco” in una fondazione che possa aiutare le persone che si sentono sole ed emarginate a causa di disagi o problemi mentali. Il tema dell’isolamento mi è sempre stato molto a cuore e ho voluto in qualche modo rendere onore a chi lotta ogni giorno contro i pregiudizi di una società che ci vorrebbe tutti perfetti, ma soprattutto è dedicato a chi non ce l’ha fatta… Per me non sono loro i deboli ma le “colpe” di gesti estremi vanno cercate tra chi avrebbe potuto fare qualcosa per aiutare chi ne aveva davvero bisogno e invece si è girato dall’altra parte.
Quanto ci hai messo a scriverlo?
Un giorno una persona mi disse “Un libro non si scrive a pizzichi e bocconi. Richiede tempo, impegno ed energie, più di qualsiasi altro lavoro. Devi svegliarti la mattina, farti il caffè, metterti alla scrivania e realizzare il numero di pagine stabilito”. Nulla di più vero. “Qualcosa di bianco” è sempre stato dentro di me, come una malattia… Una malattia che oltre a togliermi le forze, paradossalmente mi dava adrenalina e voglia di vivere. L’incubazione di questa malattia è iniziata sei anni fa, sei anni durante i quali ho finto tante volte di non esserne affetta. Poi un giorno, a metà settembre di quest’anno, stavo per iniziare un nuovo lavoro e mi sono alzata con le lacrime gli occhi. Lì ho capito tutto: stavo respingendo per l’ennesima volta il mio unico, grande amore. Ho rinunciato a quel lavoro e mi sono detta: “Mi do un mese di tempo per rimettere tutto insieme e dare una forma alla mia opera”. L’ho fatto.
Ho tagliato grossolanamente dei pezzi di realtà, ho aggiunto un po’ di immaginazione qui e là e ho lasciato macerare il tutto. Poi ho alzato la temperatura al massimo e aggiunto tanti ingredienti contrastanti tra loro e mi sono venute in mente tante ricette e tanti sapori che mi hanno consigliato le persone che fanno parte della mia vita. Già, perché qui c’è un po’ di ognuno di loro. “Qualcosa di bianco” è un elaborato spinto, decisamente difficile e controverso, ma sono sicura che gli animi sensibili comprenderanno che le metafore e gli espedienti narrativi di cui mi sono servita siano stati dei mezzi per far arrivare forte e chiaro il mio messaggio, che alla fine è senza dubbio positivo. Siamo tutti pazzi, in fondo. Siamo tutti prevedibili e scontati. Siamo tutti deboli di fronte a qualcosa per la quale ci faremmo uccidere. È questa la mia grande sfida: capire quanta gente possa effettivamente, come spero, riconoscersi in questo racconto.
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