Caporalato, l’intervista a Yvan Sagnet: guidò la rivolta dei braccianti agricoli a Nardò
| di Redazionedi Giangaetano Petrillo
Quando decidiamo di contattarlo abbiamo da poco terminato la telefonata con Padre Antonio De Luca, vescovo della diocesi di Teggiano-Policastro, che chiude esortandoci a parlare dell’emersione del lavoro in nero, dello sfruttamento. «È un fenomeno orrendo e terribile, bisogna che ne parliamo». Non servono molte parole per descrivere Yvan Sagnet. L’uomo che ha guidato la rivolta dei braccianti agricoli contro i caporali nelle campagne di Nardò, nel 2011, possiede la semplicità dei grandi. Yvan è un giovane camerunense cresciuto sognando una nazione dorata. L’Italia del calcio, l’Italia dal sole tiepido, l’Italia dalle mille opportunità. Arrivato a Torino nel 2008 col suo bagaglio pieno di sogni. Poi, avendo perso la borsa di studio nel 2011 al Politecnico di Torino, per mantenersi trova lavoro nelle campagne salentine, a Nardò. È qui che scopre il caporalato. È qui che inizia a viverlo sulla sua pelle. «Qui ho scoperto il fenomeno del caporalato, dei ghetti dove ho dormito. Ho scoperto, diciamo, il lato oscuro di questo paese». Gli irregolari, anche se invisibili, esistono sul territorio, è Yvan ne è una dimostrazione. Hanno alle spalle storie di vita complicate, dolorose, difficili. Non possono continuare a restare ultimi, anzi come degli scarti. Vanno fatti emergere dalla zona grigia della loro irregolarità, uno per uno. Lo dicono le norme più elementari della sicurezza sanitaria e pubblica per tutti noi. Del resto, sappiamo tutti per esperienza diretta, che il coronavirus non conosce confini e non fa distinzione di persone. «Queste sono le contraddizioni che emergono. Abbiamo 600.000 persone invisibili che non hanno documenti, che non si possono tracciare. Addirittura noi abbiamo ghetti la cui popolazione spesso supera la popolazione di alcuni nostri comuni, quindi sono delle vere e proprie città dentro altre città. Immagina come sia impossibile rispettare le misure igienico-sanitarie e il distanziamento sociale per far fronte a questa emergenza». C’è bisogno di una saggezza in più in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo. Nel Decreto in discussione, peraltro, saggiamente è compresa la regolamentazione anche degli italiani. Di tutti coloro che possono avere un contratto di lavoro. «Ho scoperto, nel corso degli anni, che eravamo difronte ad un fenomeno trasversale. Anzi, ricordo che il caporalato non è un fenomeno che nasce con l’arrivo dei migranti, ma pregresso di questo paese, che sfruttava in passato, e in parte ancora oggi, i lavoratori italiani, specialmente le donne, e che oggi sfrutta gli stessi lavoratori italiani con l’aggiunta dei migranti». Quest’intervista a Yvan Sagnet è una lectio sul fenomeno del caporalato, in particolare, e sullo sfruttamento sul lavoro, in generale.
Yvan Sagnet, in queste convulse giornate di trattativa, dentro e fuori il Governo, si fa strada l’ipotesi di dare ai lavoratori migranti irregolari un permesso solo di uno o tre mesi.
Non è la forma di regolarizzazione che volevamo ma è comunque un passo in avanti. Quella che auspicavamo era una forma più generale non legata soltanto all’attività economica, ma legata al diritto e alla dignità della persona umana, a prescindere dall’utilità.
Sono state introdotte e fatte rispettare regole rigorose di distanziamento sociale. Come possiamo pensare, allora, di avere 600 mila persone in qualche modo fuori controllo?
Queste sono le contraddizioni che emergono. Abbiamo 600.000 persone invisibili che non hanno documenti, che non si possono tracciare. Molti di queste persone vivono nei cosiddetti ghetti, e all’interno di questi ghetti le condizioni di sicurezza, igieniche-sanitarie sono molto precarie.
Sul fronte dell’economia la regolarizzazione è certamente vantaggiosa per il paese. È un ritornello che gli economisti da tempo ripetono.
Bisogna uscire dall’ipocrisia, mettere da parte l’ideologia, le polemiche e entrare nella sostanza del problema. Noi abbiamo circa 600.000 stranieri irregolari, numero che tende ad aumentare per effetto delle leggi Salvini. Mancano oggi all’appello circa 250.000 braccianti che sono per lo più comunitari, rumeni e bulgari che non possono entrare nel nostro paese a causa dell’emergenza pandemica. Questo rischia di mettere in ginocchio la nostra filiera agro-alimentare. Alcune organizzazioni hanno proposto di far arrivare in Italia velocemente questi braccianti dalla Romania, dalla Bulgaria con un decreto ad hoc sui flussi. Noi diciamo che anziché importare questa manodopera di regolarizzare chi già vive nel nostro paese, così da far emergere il sommerso. Daremo un’opportunità di lavoro sicuro e in regola e, rispondendo alla tua domanda, creando un effetto positivo per l’economia del nostro paese, iniziando a versare contributi previdenziali così da pagare le pensioni per tanti italiani. È una proposta di buon senso, ragionevole vista anche l’impossibilità nei rimpatri.
E questo per la concreta ragione, non la sola ma fondamentale, che mancano gli accordi con i Paesi di origine. Ad oggi gli accordi sono 4, Tunisia, Marocco, Nigeria e uno, antichissimo, con l’Egitto.
Il concetto di rimpatrio è un concetto molto complesso. Per rimpatriare le persone servono degli accordi bilaterali con i diversi paesi di provenienza di queste persone. Non tutti i paesi sono disposti ad accogliere connazionali migrati illegalmente. E la politica deve tener conto di questo e rimpatriare delle persone in luoghi in cui vi sono conflitti e guerre non penso sia un giusto modo di agire per un paese civile come l’Italia. Chi parlava proprio di rimpatri di massa si è misurato con la realtà, perché un conto è la propaganda un contro è la realtà. E a fronte di oltre 500.000 rimpatri promessi in campagna elettorale abbiamo avuto una decina di rimpatri al mese. Dobbiamo, quindi, prendere atto che i rimpatri sono difficili e complicati e discutere su cosa intendiamo fare di queste persone. Continuare a mantenerli nell’illegalità? Non ha senso, quindi una politica lungimirante, opera una regolarizzazione di massa per queste persone anche perché hanno il diritto di vivere degnamente, e uno stato non può creare cittadini di serie a e cittadini di serie b. Regolarizziamo queste persone e diamogli questa opportunità. Se l’Italia è un paese civili, che appartiene all’occidente, e se l’occidente vuole rimanere come culla dei diritti, allora l’unica cosa che deve fare è regolarizzare tutti i cittadini che vivono sul suo territorio. Diversamente continueremo ad avere questa situazione, e l’Italia è il paese maggiormente in pericolo perché la natura ha voluto che fosse un paese di frontiera.
Perché deve essere esclusivamente l’Italia a farsi carico di questa emergenza e non invece l’Europa? La preoccupazione, per molti, è che questa regolarizzazione possa creare un precedente e consentire così a chiunque continui ad arrivare sulle nostre coste di essere regolarizzato.
Attenzione, un conto sono le politiche migratorie un conto sono le politiche d’integrazione, per capirci di chi sta già qua. Spesso si confondono questi due aspetti e chi lo fa, lo fa in modo strumentale. Io invito le persone ragionevoli, e soprattutto i nostri dirigenti, a non mischiare e confondere le due cose che, seppur legate tra di loro, sono differenti. Noi sappiamo che su questo tema la grande assente è proprio l’Europa e bisogna spingere perché noi, come paese Italia, apparteniamo all’Unione Europea e quindi dobbiamo chiedere che l’Europa si faccia carico di questa emergenza sia di quelli che vivono già qui sia quelli che continuano ad arrivare, con una legge sull’asilo, che noi stiamo promuovendo, da consentire ai paesi di frontiera, come l’Italia, la Spagna e la Grecia, di poter dirigere i flussi verso i paesi interni dell’Europa. Bisognerebbe poi intervenire con un pacchetto che contrasti a monte le migrazioni, con politiche economiche, d’investimenti, che intervengano nei conflitti in diversi paesi dell’Africa, perché la gente decida non di non partire più. Fossi un politico regolarizzerei tutti, perché la maggior parte di questi immigrati non vogliono rimanere in Italia ma raggiungere in paesi del nord dell’Europa. Quindi è logico comprendere come, consegnando dei documenti a queste persone, scaturiscano effetti favorevoli anche al nostro paese, poiché molti sarebbero gli immigrati a trasferirsi in altri paesi d’Europa. Lo vediamo cosa succede alle frontiere con altri paesi d’Europa, come cercano di oltrepassarle per raggiungere la Francia, piuttosto che la Germana o il Regno Unito. Per chi non vuole queste persone in Italia, per chi non ha avuto le capacità di rimpatriarli, è una decisione logica doverli regolarizzare.
<<È vero che c’è crisi per tutti, ma la dignità delle persone va sempre rispettata>>. Papa Francesco è una delle poche voci rumorose e sensibili su questo tema.
È un messaggio molto forte quello del Papa. Ho sempre definito il Papa oltre che un messaggero del signore, un sindacalista e un grande politico. Parla sempre delle persone più vulnerabili del mercato del lavoro, tra cui i braccianti agricoli. La nostra politica deve riportare al centro la dignità. Abbiamo un sistema che sta calpestando la dignità e non c’è più rispetto per l’uomo. Agli occhi della politica l’essere umano viene considerato un oggetto. Una politica che è diventata insensibile e non si commuove più, come invece fa il Papa, difronte a certe situazioni. Quindi il messaggio del Papa, in questo vuoto politico, in questo vuoto dei valori umani, è diventato importante. Andiamo avanti nelle nostre lotte, nelle nostre battaglie consapevoli anche di avere una figura, come il Papa, che affronta questi temi non per calcoli politici, di consenso, ma pone al centro l’essere umano a prescindere dalle sue origini.
Ci racconti come sei giunto a Nardò?
Prima di rispondere alla tua domanda volevo dirti un’ultima cosa. Nella discussione sulla regolarizzazione, è emersa l’ipotesi di impiegare coloro che percepiscono il Reddito di Cittadinanza, i pensionati, gli studenti. Questo non fa altro che alimentare l’eterno dibattito tra ultimi e penultimi, tra italiani e stranieri nel mercato del lavoro. Non siamo contrari all’idea, ma alcune organizzazioni datoriali hanno creato delle piattaforme digitali per incrociare offerta e domanda di lavoro e hanno chiesto a tanti italiani, tra cui beneficiari del RdC, di iscriversi a questo portale e fare richiesta di assunzione. Bene, alla fine meno di 10.000 italiani hanno fatto richiesta e si sono iscritti al portale. Meno di 10.000 a fronte dei 250.000 che mancano all’appello. È chiaro che c’è chi intende rimanere a casa, anche comodamente, ricevendo un sussidio anziché andare a lavorare. Questo è il dato, ahimè, quello che poi emerge. Per quanto riguarda la mia storia, io sono arrivato in Italia nel 2008 per motivi di studi, avendo perso la borsa di studio nel 2011 al politecnico di Torino che significava pagare tasse più alte, mi sono messo alla ricerca di un lavoro. Un amico dunque mi ha parlato della raccolta di pomodori in Puglia, e sono arrivato quindi a Nardò. Qui ho scoperto il fenomeno del caporalato, dei ghetti dove ho dormito. Ho scoperto, diciamo, il lato oscuro di questo paese. Da persona di cultura ho fatto due conti e considerato che quella situazione era insostenibile, non dignitosa di un paese civile che non rispetta la dignità delle persone, e così ho messo il mio coraggio a disposizione dei miei amici, dei miei compagni, la mia determinazione, organizzando uno sciopero. Questo sciopero ha portato alla denuncia di questo fenomeno, alle leggi sulla lotta al caporalato. Oggi, con l’associazione che abbiamo creato, NoCap, ci impegniamo per fare uscire i nostri compagni da queste condizioni disumani.
Come stesso tu hai detto, il fenomeno del caporalato è trasversale. Ma in un sistema capitalistico il caporalato è un male necessario?
Il caporalato è funzionale al sistema capitalistico, è l’effetto di questo sistema. Siamo difronte ad un mercato veloce. Le aziende devono poter mettere i prodotti sul mercato tutti i giorni, perché c’è una domanda permanente da parte dei cittadini-consumatori che devono mangiare tutti i giorni. Le aziende devono dunque organizzarsi di conseguenza. Noi abbiamo al centro di questo sistema la grande distribuzione organizzata che è il male assoluto. Io spesso li chiamo i generali dello sfruttamento. Il meccanismo è quello dell’abbassamento costante del prezzo dei prodotti tale da spingere il contadino del Cilento che non riesce a reggere, a causa dei prezzi così bassi con i quali vengono acquistati dalle multinazionali i suoi prodotti, a scaricare sull’anello debole, i loro dipendenti, cioè i braccianti agricoli. Il centro di questa operazione è la massimizzazione del profitto che si basa sullo sfruttamento dei più deboli. Il nostro mercato del lavoro in parte regge su questo fenomeno. Parlare di caporalato è diminutivo per parlare di sfruttamento, perché il caporalato è una parte. Ci sono altri fenomeno di sfruttamento, come il sotto salario, la semi schiavitù, il lavoro in nero. Questo è il sistema perverso alimentato dalla grande distribuzione. Il contadino, in questo caso del Cilento, non può nemmeno protestare, perché il suo potere contrattuale nei confronti della grande distribuzione è pari a zero. Perché se un contadino dovesse rifiutarsi di vendere quel prodotto a quel costo irrisorio, ci sarà qualche altro contadino disposto a vendere lo stesso prodotto a quello stesso prezzo. Quindi il prezzo tenderà costantemente al ribasso, alimentando così questo processo perverso dello sfruttamento sul lavoro.
Possono esserci degli strumenti per intervenire?
Ci sono strumenti utili a contrastare questo sistema. Innanzitutto lo Stato potrebbe cercare di sostituire il caporalato con un sistema sano d’intermediazione tra l’offerta del lavoro e la domanda. Cioè tra l’agricoltore e il lavoratore, il bracciante. Siccome i nostri centri per l’impiego non funzionano più, sono stati sostituiti nel corso degli anni dai caporali, perché le aziende per trovare la manodopera non si recano nei centri per l’impiego, dove nessun lavoratore va più a iscriversi, e si rivolge al caporale di turno. Senza quindi un’intermediazione legale. Dunque, ci vuole innanzitutto una riforma dei centri per l’impiego perché ritornino a incrociare le offerte di lavoro con le domande. Poi esiste un’altra proposta di sistema, legata al modello di sviluppo economico che intendiamo promuovere per il futuro. Fin quando continueremo ad avere un mercato gestito dalle mani di pochi che comandano, delle multinazionali, noi avremo sempre fenomeni distorsivi e a pagarne il prezzo saranno i produttori e poi i lavoratori. Abbiamo bisogno, per scardinare questo sistema, soprattutto di fissare un prezzo minimo sotto al quale non si può scendere, avere delle regole sul mercato. Abbiamo approvato, come NoCap, una forma di tracciabilità della filiera. Si basa su il bollino etico che traccia il prodotto dalla coltivazione, alla produzione, fino alla consumazione. Questo consente di tracciare il prodotto e consentire ai consumatori di responsabilizzarsi. Perché la soluzione principale sta nella consapevolezza del consumatore che deve chiedersi da dove proviene il prodotto. Se il bracciante che lo coltiva ha un contratto regolare, se non vive in un ghetto ma in un’abitazione dignitosa e sicura. Noi con l’Associazione NoCap stiamo promuovendo questa nuova consapevolezza sull’acquisto che è il dato più rilevante.
Valorizzazione della filiera corta locale, sostenibilità ambientale, de-carbonizzazione, rispetto dei diritti nel lavoro, rifiuti zero e promozione della trasformazione. Più che un decalogo, Yvan, quella di No Cap sembra una dichiarazione programmatica d’intenti. È così?
Bisogna affrontare questi temi se vogliamo una società migliore. Una filiera sostenibile, più giusta e più equa. Questa società moderna è insostenibile senza il rispetto della terra. Partiamo da questi sei principi. Tendiamo a produrre meno carbone e ad inquinare sempre meno. Produrre meno rifiuti e riutilizzare questi stessi rifiuti.
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