Cilento, le storie narrate dalle scarpe del Lupo e quel violino di Bristol
| di Luigi MartinoAvete mai incontrato un paio di scarpe che parlano? No. Non in quel senso. Non quelle scarpe con la suola rotta, con il sottopiede in cuoio che funge da lingua e il rinforzo della punta trasandato. Le scarpe di Saverio parlano. Quelle sì. Oggi mi hanno raccontato troppe cose. Un po’ come accade sempre quando mi lascio alle spalle Porto Infreschi e varco la porta del suo rifugio. Ai piedi del vallone del Marcellino, tra i comuni di Camerota e San Giovanni a Piro, nel cuore del Parco nazionale del Cilento e dell’area marina protetta degli Infreschi e della Masseta, c’è il ‘Lupo’. Che voi un po’ già lo conoscete. Ha i baffi lunghi, le mani possenti e mille storie che fanno a cazzotti per uscire dagli occhi. Due palle scure che non stanno mai ferme. E le scarpe. Le sue. Che questo vallone, questo inferno di rovi, di serpi e cinghiali, lo conoscono a memoria. E’ l’unico che da San Giovanni a Piro raggiunge questo scrigno di leggende a piedi, attraversando il vallone. Un tempo qui ci facevano il carbone. Poi il nonno ci portava gli animali. Il profumo di tempi ormai troppo lontani per tutti, per fortuna, è rimasto. E’ qui, aggrappato a questo grande carrubo ‘maschio’ che protegge la ‘femmina’, più piccola. A lui Saverio ha dedicato una canzone. A lei, invece, coccole e preghiere: i suoi frutti sono delizie per le capre. Le stesse che, quando i turisti sono altrove, scendono sugli scogli, bevono l’acqua salmastra e il segreto del formaggio così buono, ve lo abbiamo già svelato. Se ti concentri senti i profumi della macchia Mediterranea: il mirto, il lentisco, le ginestre.
E la ricotta, tanto buona da far tornare quelli di Firenze ogni anno. Che a sentirla, spalmata su questo pane alla brace con olio extravergine di oliva del Cilento, sembra di essere di paradiso. Per oggi la moglie e la suocera di Saverio le lasciamo a riposo. Mimmo Caiazzo, esperto conoscitore del territorio e delle tradizioni culinarie di questa terra, ha da fare ai fornelli. C’è un gruppo di visitatori della Val Gardena che vuole imparare come si cucina da queste parti. E nelle mani di Mimmo, di Vito Scarpitta e di Gerardo Talamo, sembra tutto così facile. In tavola arriva uno spaghetto con fave, vongole e finocchietto selvatico. Una spruzzata di prezzemolo e via, il quadro è servito. Definirlo ‘piatto’ sarebbe riduttivo. Qualcuno potrebbe addirittura offendersi. E allora si va avanti con i mezzi gamberi rossi imperiali di Marina di Camerota con intingolo di rosmarino, limone, prezzemolo e tanta aria buona di Marcellino. Ci aggiungiamo anche un pizzico di saggezza di Gerardo e Mimmo. L’aglianico Caretta può solo accompagnare, un po’ come i dolci della pasticceria Vigorito e le melodie di Saverio.
Che poi ad un tratto spunta un piccolissimo veliero in legno. Arriva da lontano. Da dove non potete immaginare. L’uomo a bordo preferisce tenere per sè il suo nome. Ma ci racconta che una volta andato in pensione ha comprato un violino ed ha lasciato Bristol, una città inglese sviluppatasi su entrambe le rive del fiume Avon. Dall’Inghilterra ha raggiunto l’Italia. Ha conosciuto a Salerno quello che per lui è diventato amico e guida. E dopo Acciaroli, Pisciotta e Camerota, si è fermato qui, alla Taverna. Accetta volentieri un bicchiere di vino rosso, qualche gambero da ‘sgusciare’. Poi si sciacqua le mani ed estrae il violino. Con Saverio è subito amore.
Quello che serve a volte lo trovi lì, per caso. A differenza di quei giorni neri dove ti strappi i capelli e vai a cercare l’impossibile nelle crepe più fitte di questa vita. A volte basta spegnere il cellulare mezza giornata, affidarsi alle rughe dei barcaioli del porto di Marina di Camerota e combattere con un po’ di mare di scirocco. A destra i gabbiani, a sinistra la cala dei Morti e un milione di storie. Le certezze aiutano a vivere, è vero. Un po’ come i punti fermi, le spalle possenti a cui aggrapparti. E Saverio e la sua Taverna sono diventati per molti questa roba qui. Puoi anche evitare di andarci per mesi ma sai che a lui, con tutta la sua tribù, lo trovi lì, lontano dal trambusto e dai luoghi comuni, lontano dai social e dalla ‘tuttologia’ di alcuni. Un rifugio più che una Taverna. Forse un faro. Chissà. A me basta sapere che c’è. Che è lì, dove l’orologio non lo guardi mai.
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