Dalla crisi dei partiti a quella di Stato
| di Antonio CalicchioGli esiti delle recenti elezioni politiche non hanno evitato – ancora una volta, come da più parti e da tempo si dichiara – di porre in risalto la crisi delle istituzioni statuali, che, in fondo, si identifica con una crisi d’autorità, ergendosi, questa, ormai, su altre fondamenta, morali e materiali, in conseguenza dei rapidi cambiamenti socio-politici, avvenuti negli ultimi anni
Non si dà, realisticamente, periodo storico che non sia stato reputato un periodo di crisi; di crisi ho sentito discutere in tutte le età della mia vita: negli anni di piombo, dopo la caduta del Muro di Berlino, durante Tangentopoli e le stragi di mafia, dopo il crollo delle Torri Gemelle, negli ultimi anni di pandemia e di guerra. Il termine “crisi”, dal greco, crisis, sul piano etimologico, deriva dal vocabolo crino, che vuol dire “giudicare”, nel caso specifico, giudicare i partiti e lo Stato, sulla base di argomentazioni razionali o di constatazioni empiriche.
Orbene, è pur vero che, sotto il profilo formale, il potere politico è di spettanza degli organi dello Stato, ma appare altrettanto innegabile che, sotto quello sostanziale, sono i partiti ad assumere le decisioni, in ordine alla soluzione dei problemi della vita nazionale, a nominare i propri iscritti e simpatizzanti ai posti di responsabilità di importanti organismi, a distribuire favori, concedendo appalti, permessi, contributi, finanziamenti.
La genesi e l’evoluzione storica dei partiti sono strettamente connesse all’introduzione del suffragio e alla sua estensione, all’avvento dei valori fondamentali della libertà, del diritto, del pluralismo, dello Stato democratico, rispetto a quello assolutistico (in virtù della dicotomia, elaborata da Machiavelli, sulle orme tratteggiate da Aristotele, che connota le forme di governo). Secondo una tesi dottrinale, i partiti sarebbero sempre esistiti e non sono, quindi, organismi di matrice moderna. Basterebbe ricordare i patrizi ed i plebei, nella Roma antica, i guelfi ed i ghibellini, nella età dei Comuni, i cattolici ed i protestanti, nella Francia del sec. XVII. Ma giova evidenziare, sul punto, che siffatto orientamento teorico è da ritenersi invalido e destituito di fondatezza, in virtù della consapevolezza che, in detti casi, si trattava di fazioni, sia perché erano gruppi o fronti che mancavano di una stabile struttura organizzativa e di un programma politico, sia perché le loro lotte rivestivano carattere particolare e “partigiano”. L’abbrivio dato ad un sistema di partiti si rinviene, in Inghilterra, nel sec. XVII, quando le classi sociali cominciarono, immanentisticamente, a prendere coscienza di sé e dei propri interessi, aderendo alle posizioni conservatrici, dei tories, o a quelle liberali, dei whigs. Nel secolo successivo, trovò sviluppo la dottrina per cui ciascun individuo ha il diritto di associarsi, per perseguire determinate finalità politiche e per concorrere alla costituzione di assemblee legislative, che rappresentano la c.d. voluntas populi. L’origine dei partiti, dunque, deduce la sua fonte di legittimazione di ordine concettuale e storico dalla esigenza di fronteggiare le necessità proprie di una contesa politica sempre più ampia e più articolata, che postulava, ormai, un impegno chiaro e trasparente, e non più all’interno di “consorterie”. Nei tempi attuali, il partito si caratterizza per essere non già un organo dello Stato, né una istituzione, bensì una associazione volontaria privata, avente un permanente apparato democratico e un programma, con lo scopo di determinare, attraverso un metodo, parimenti, democratico, la politica nazionale e locale, centrale e periferica. La Costituzione repubblicana italiana, del 1948, così concepisce e struttura, ontologicamente, il partito, riconoscendo ad esso, in via indiretta, anche una funzione pubblicistica e sociale, che si oggettiva, soprattutto, nel contribuire alla formazione dell’indirizzo politico del Paese e nell’operare la indispensabile saldatura fra la società civile e quella politica, fra il corpo sociale e lo Stato, tanto se si tratti di partito di maggioranza, quanto se si tratti di partito di opposizione. Ed infatti, quest’ultima non è una mera forza negativa, né un peso morto, che ostacola l’azione di governo; anzi, essa, pur non essendo parte del governo, nondimeno costituisce, unitamente alla maggioranza, quella che, in meccanica, si definisce una “coppia”, tanto che dalle rispettive azioni e reazioni deriva l’energia politica, che muove i meccanismi costituzionali.
Ed inoltre, l’odierna fenomenologia della crisi delle istituzioni è, in larga parte e causalmente, riconducibile a quella, appunto, che attanaglia i partiti, divenuti incapaci di adempiere al loro ruolo di mediazione fra cittadini e classe politica, di mobilitazione di consensi e di interessi, di educazione e di formazione politica. Ed infatti, si verifica, e si è verificata, una inettitudine a cementare, con autentiche motivazioni ideologiche, il corpo elettorale, avendo i partiti smarrito la primigenia carica ideale ed essendo scaduta la capacità di prospettare un disegno futuro, tale da mobilitare l’interesse e la passione politica dei cittadini. Si verifica, e si è verificata, una crisi ideologica, per cui le persone militano, generalmente, all’interno dei partiti per conformismo, per apatia e, preminentemente, per affermare i propri interessi personalistici e del piccolo gruppo di cui sono espressione.
L’ideologia – a supporre che, nella contemporaneità, ne esista ancora una – anziché cementare e alimentare, in misura unitaria, le forze di partito, viene interpretata, (quasi) sempre, alla stregua di una metodologia ermeneutica soggettivistica, ad opera degli iscritti, nonché strumentalizzata, al fine di occultare interessi di gruppi ricattatori e frazionistici. E così, i giovani, nel non trovare, per questo, rispondenza alle loro esigenze ideali, si distanziano dalla politica, privando di forza rinnovatrice le posizioni di potere amministrate dagli apparati, tant’è vero che la “carriera” politica viene a dipendere, (quasi) sempre, dalla magnanimità dei capicorrente, più che dalla volontà della base.
Ulteriore fenomeno è dato dalla correntocrazia, cioè, dalla scomposizione del sistema dei partiti in correnti, quasi fossero dei sotto-partiti, delle costellazioni di interessi, dei raggruppamenti, con programmi e “proposte” differenti e contrastanti. Del resto, le correnti non sono, di per sé, da respingere, estrinsecando, esse, una vivificante dialettica democratica; talché, le correnti scivolano, fatalmente, da una piattaforma di interpretazione operativa ed ideale del programma politico ad una catalizzazione di personalità, dietro cui si costruiscono i gruppi e il clientelismo, con l’essenziale effetto che, nell’ambito dei partiti, le correnti divengono partiti nel partito, dietro alcuni leaders.
Ed ancora. I partiti faticano a tenere il passo con gli spediti ed inarrestabili processi di trasformazione sociale, al punto che i programmi sono, non di rado, in ritardo in confronto ai bisogni emergenti, essendo vincolati dal fatto di arenarsi nel dibattere questioni che risultano, spesso, estranee alla realtà.
Non si trascuri un altro aspetto, vale a dire quello inerente alla presentazione delle candidature, che, stante il vigente sistema elettorale, prescinde dalla volontà degli iscritti, i quali non possono esercitare alcuna influenza e, di frequente, si trovano dinanzi candidati sconosciuti o che non ottengono il consenso della base. Ed infatti, negli organismi di partito, ristretti gruppi manipolano le candidature e stabiliscono le preferenze, in vista, talvolta, di favorire il mantenimento di interessi oligarchici, talaltra, preferendo persone docili o mediocri a coloro che sono animati da spirito innovatore, competente ed esperto.
E così, la classe politica scade nella valutazione della pubblica opinione, mentre i più, rassegnandosi, rinunciano ad impegnarsi personalmente e delegano la promozione e l’attuazione del c.d. bene comune agli “addetti ai lavori”.
Pertanto, se, per un verso, si registra concordia, (quasi) unanime, nel raffigurare la necessità di un radicale rinnovamento della classe dirigente, per l’altro, non è revocabile in dubbio, allora, che i partiti, malgrado le imperfezioni, le insufficienze e le sudditanze, hanno, tuttavia, il merito di immettere ossigeno democratico in una società, politicamente, asfittica, su cui ha pesato, e, purtroppo, ancora pesa, la retrograda mentalità delle caste dominanti, refrattarie a qualsivoglia mutamento e pronte a porsi sotto l’ala protettrice del trono e della chiesa o a dar mano ad avventure autoritaristiche – a seconda dei tempi – nella persuasione di poter proseguire, ad infinitum, a giocare a carte segnate con le classi subalterne.
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