Don Mattia Ferrari, il giovane prete vicino ai migranti della Mare Jonio
| di Redazionedi Giangaetano Petrillo
«Siamo in acque internazionali, a 40 miglia a nord di Tripoli, è il 9 maggio 2019, e sono le 16.30. Ormai nessuna nave vuole più passare di qui, per evitare di incontrare imbarcazioni con migranti a bordo e doverli soccorrere. Mediterranea invece c’è, ha capito che doveva esserci. Prima di qualsiasi convenienza sociale, politica o economica viene infatti l’umanità. L’equipaggio è composto in maggioranza da giovani provenienti da universi sociali e culturali diversissimi: marinai siciliani, attivisti dei centri sociali bolognesi e romani, volontari arrivati da varie regioni dell’Italia, giornalisti che sono stati nelle zone di guerra di tutto il pianeta. E per la prima volta sulle navi di soccorso sono salito anch’io, un prete. Tommy Stella torna a insistere. “Scatta la foto mentre guardo il mare con il binocolo, dai”, esclama mentre passa il cellulare ad Alessandro, l’infermiere arrivato dalla Sardegna. Tommy si mette in posa, e osserva davvero dentro alle spesse lenti del visore, perché in mare non si sa mai: anche quando si scherza per spezzare la tensione bisogna non perdere mai di vista tutto quello che c’è tra te e la linea d’orizzonte. “Sei pronto?” gli chiede Alessandro. Tommy è ancora in posa, ma non risponde. Lo vedo con la bocca spalancata, come quando scorge balenottere o delfini, meravigliandosi come solo gli uomini di mare sanno fare quando nella solitudine delle traversate incontrano qualcuno che in fondo considerano un proprio simile. Tommy è immobile. Lui, sempre guascone e pronto alla battuta, all’improvviso s’è fatto tutto serio. Ci passa il binocolo: “Guardate”. E indica un punto con il dito. Sulla Mare Jonio intanto fissano il radar. Anche lì c’è una macchiolina scura. Tommy ha ragione. Lì, in mezzo al deserto blu del Mediterraneo centrale, c’è un gommone piccolo e sovraccarico: 30 persone. Il motore è in avaria. La loro unica speranza di sopravvivere, oggi, qui dove nessuno viene più a pattugliare, si chiama Mediterranea Saving Humans. Sono 30 persone in fuga dal nulla e dalla morte, scampate dalle torture nei campi libici. Da prete so che in fondo la mia è la missione della ‘barca di Pietro’. Ma mai mi sarei sognato di salire un giorno su un’altra ‘barca di Pietro’ perché insieme ad altri diventassimo, letteralmente, ‘pescatori di uomini’».
Il 9 maggio 2019, i volontari sulla Mare Jonio, la nave della piattaforma della società civile Mediterranea, individuano nel tratto di mare tra la Sicilia e la Libia un gommone in avaria con 30 migranti. «Da dove venite?» viene chiesto loro. «Dall’inferno», rispondono. Tra i primi a portare aiuto c’è un giovane prete che si è imbarcato come cappellano di bordo, don Mattia Ferrari. Ha ventisei anni, ma il suo impegno a favore degli ultimi e di un mondo più giusto ha radici profonde e attraversa tutta la sua vita, dalla prima scintilla della vocazione fino all’impegno per una Chiesa popolare e aperta alle sfide della modernità nel solco degli insegnamenti di papa Francesco. È l’occasione per ascoltare le speranze di un’intera generazione di ragazze e ragazzi che non vuole arrendersi alla paura, decisa a impegnarsi direttamente in difesa dell’ambiente e dei più deboli, e non disposta a voltare lo sguardo davanti all’ingiustizia.
Padre Mattia, prima di incominciare, può raccontarci come si è trovato su quella nave?
Mi sono ritrovato su quella nave per l’amicizia con i ragazzi dei centri sociali bolognesi Tpo e Làbas, che sono tra i fondatori di Mediterranea. Siamo amici da anni proprio a motivo della comune amicizia con i migranti. Mi hanno invitato a unirmi a loro in questa avventura e, conoscendo i loro cuori e sapendo con che spirito di amore, di ricerca della giustizia e di costruzione della fraternità universale lo facessero, ho accettato.
Quest’emergenza ha promosso un dibattito acceso sulla decisione del Governo di chiudere le Chiese. Alle critiche della CEI sono seguite le parole del Santo Padre che ha pregato perché siamo prudenti in questa fase.
È un tema estremamente delicato, sul quale non ho le competenze né l’autorevolezza per esprimermi. Posso solo dire che sono sicuro che la CEI e il governo sapranno trovare il modo per coniugare la tutela della salute al diritto al culto. Può succedere che in fasi delicate come questa ci siano incomprensioni e discussioni, ma credo che tutti stiano agendo con onestà e che quindi le soluzioni si troveranno.
L’emergenza pandemica ci ha allontanato dalla comunione eucaristica. Come possono ricercarlo i credenti, quest’intimo contatto con Dio, in questo periodo di crisi?
Ci sono tante forme di creatività pastorale. Indubbiamente il digiuno forzato dalla comunione eucaristica, che certo fa soffrire, è stata per alcuni l’occasione di riscoprire altre forme di preghiera che a volte trascuriamo. D’altro canto Gesù ci dice che Dio vede il nostro cuore e ascolta le nostre preghiere anche quando siamo chiusi nella nostra stanza. Non dimentichiamo poi le forme di solidarietà con chi soffre che sono possibili anche in questo momento, tramite il telefono, il computer e le iniziative di assistenza promosse in conformità ai protocolli: sono importanti anche per l’intimo contatto con Dio, perché sappiamo bene che Dio si fa trovare in modo speciale proprio nell’amore verso chi è in difficoltà.
L’immagine di Papa Francesco in una piazza San Pietro avvolta dal silenzio della solitudine, è emblematica. Cosa le ha trasmesso?
È stata una cosa fortissima, che ha colpito tutto il mondo, anche le persone che non professano la fede cattolica. Papa Francesco si è mostrato così, nella sua umanità, senza paura di mostrarsi davanti a una piazza vuota: ha manifestato la sua umanità, ha ricordato al mondo che siamo tutti sulla stessa barca, e ha raccolto nella sua preghiera le sofferenze di tutta l’umanità e le ha consegnate a Dio. Abbiamo un grande Papa, capace di parlare a tutti e di mostrare a tutti la bellezza del Vangelo.
Una recente inchiesta di Report ha raccontato quel mondo conservatore, anche all’interno della Chiesa, che critica aspramente il Papa, arrivando persino ad attribuirGli la colpa di questa pandemia, anche per le sue aperture verso gli omosessuali.
Contro Papa Francesco ci sono sia i moderni farisei sia i potenti di questo mondo, proprio come ai tempi di Gesù. Papa Francesco è fedele a Gesù e per questo motivo viene attaccato dai successori di quelli che attaccavano Gesù.
Ritorniamo all’esperienza che racconta nel libro. Perché il titolo di “Pescatori di uomini”?
Il titolo è nato ispirandosi a una frase dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che in un’occasione ha ricordato che i ragazzi e le ragazze di Mediterranea è come se avessero preso alla lettera il mandato di Gesù: “Vi farò pescatori di uomini”.
Qual è la prima immagine che le ritorna alla mente quando ricorda quei momenti?
La notte del salvataggio. Vedere queste persone migranti, che stavano per morire a causa dell’ingiustizia, ritornare alla vita grazie ai ragazzi e alle ragazze di Mediterranea, grazie al fatto che questi ragazzi e ragazze hanno aperto il loro cuore alla compassione viscerale verso l’umanità ferita e si sono messi in gioco rischiando in prima persona per salvarli, mi ha mostrato la potenza dell’amore.
La propaganda sovranista, in parte soffocata dall’emergenza del Covid-19, ha soffiato forte sulla paura degli italiani.
È appunto propaganda. Infatti accogliere le persone migranti è una questione di umanità e di giustizia: di umanità, perché sono esseri umani come noi, nostri fratelli e sorelle, e di giustizia, perché siamo noi i predoni dell’Africa, siamo noi che abbiamo causato e continuiamo a causare lo sfruttamento, l’ingiustizia e la catastrofe climatica da cui queste persone fuggono. Come ha detto la nostra presidente Alessandra Sciurba: da come ci poniamo davanti a questo tema si capisce il tipo di società che vogliamo costruire.
Lei è riuscito a spiegarsi come mai parte degli italiani, comunque credenti, si è lasciata assuefare da un messaggio intriso di odio, violenza, razzismo?
Il motivo lo ha spiegato il già citato arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che l’estate scorsa ha invitato tutti a stare in guardia dalla peste del cuore. La peste che si insinua nei nostri cuori e li volge verso l’egoismo o l’indifferenza. Questa peste ci fa credere che pensando prima a noi staremo meglio e ci fa chiudere il cuore verso l’umanità ferita. Ma in questo modo ci inganna: chiuderci verso gli altri non ci porta veramente ad essere più felici, ma ad essere più tristi, arrabbiati, infelici. Tutti sappiamo, e chi è cristiano lo crede anche per fede, che in realtà l’essere umano trova la felicità nella misura in cui apre il proprio cuore all’umanità ferita e si dona agli altri.
Ci sono delle immagini che vorrei lei mi commentasse. Quel pane calpestato dai cittadini di Tor Bella Monaca; quegli insulti rivolti a Carola Rackete e, infine, l’immagine dei diversi roghi tra le baraccopoli dei tanti braccianti agricoli vittima del caporalato. Che Italia è questa? Anzi, che Europa è questa?
Sono un’Italia e un’Europa prese dalla peste del cuore. Un’Italia e un’Europa che infatti chiudendosi non stanno trovando veramente la felicità, ma sempre più tristezza e rabbia.
Uno dei paradossi della propaganda sovranista è quella di inserire la radice cristiana nella cultura europea. Ma tra i fondali del Mediterraneo, tra le carceri libiche finanziate con soldi comunitari e i nuovi campi di concentramento creati dall’Europa in Turchia, dov’è il Cristianesimo?
Il cristianesimo è tra i ragazzi di Mediterranea, che mettono in gioco se stessi esponendosi a critiche, insulti, calunnie e denunce, pur di essere presenti come fratelli e sorelle accanto a chi rischia di morire vittima dell’ingiustizia. Il cristianesimo è nelle lotte dei braccianti, di persone come Aboubakar Soumahoro e Ivan Fagnet. Il cristianesimo è nelle tante parrocchie e altre realtà che aprono il proprio cuore e si fanno fratelli e sorelle di chi è in difficoltà.
Ci lasci con una speranza, don Mattia.
Io ho avuto una grande fortuna: essere testimone oculare di realtà bellissime, costruite da persone meravigliose, che stanno veramente cambiando il mondo. Le ho viste a Modena, a Bologna, a Roma, a Palermo, e Mediterranea è stata l’apice di tutto questo. Seguiamo l’esempio di queste persone, apriamo il nostro cuore alla compassione viscerale, mettiamoci in gioco prima per essere veramente fratelli e sorelle di chi è in difficoltà. Allora troveremo nella nostra vita la felicità vera, quella che Papa Francesco chiama la gioia del Vangelo. E allora il mondo cambierà davvero.
©Riproduzione riservata