E’ morto Franco Battiato, amico del Meeting del Mare
| di Luigi MartinoGiugno 2014. Un grande tappeto e le cuffie. Una distesa di stelle e lo sciabordio del mare. Franco Battiato, dopo una conferenza stampa di presentazione ricca di polemiche ma schietta e diretta (senza peli sulla lingua), tenutasi all’Hotel America insieme all’organizzatore della kermesse, don Gianni Citro, incanta la 18esima edizione del Meeting del Mare. Il porto di Marina di Camerota è un assembramento magnifico che non conosce ancora pandemie.
Oggi Battiato ci lascia. Il cantautore si è spento nella sua residenza di Milo, era malato da tempo. Dopo la frattura al femore e al bacino era riapparso sui social ma non più in pubblico. Era nato a Jonia il 23 marzo del 1945, aveva 76 anni. La conferma è stata data dalla famiglia che fa sapere che le esequie si terranno in forma strettamente privata e ringrazia tutti per le innumerevoli testimonianze di affetto ricevute.
Difficile incasellarlo, impossibile metterlo all’interno di un genere, dargli una pur semplice etichetta, e quindi se c’è un modo semplice per spiegare il suo lavoro è quello di chiamarlo “artista” e godere della sua musica senza tempo, ma anche del suo cinema, della sua pittura. Nella sua lunghissima carriera ha consegnato brani indimenticabili come La cura, Centro di gravità permanente, Voglio vederti danzare.
Capace di spaziare tra generi diversissimi dalla musica pop a quella colta, toccando momenti di avanguardia e raggiungendo una grande popolarità, ha sperimentato l’elettronica, si è misurato con la musica etnica e con l’opera lirica. Ha diretto anche diversi film tra cui Perdutoamor e Musikante su Ludwig van Beethoven presentato alla Mostra del cinema di Venezia.
La sensazione che una specie di appagamento interiore, di soddisfazione artistica, l’avesse alfine raggiunta, dopo tanto peregrinare, l’aveva data nel 1991, quando uscì Come un cammello in una grondaia. Il titolo diceva già tutto di quello che era diventato Battiato, ovvero un cantautore che sceglieva un titolo ispirandosi ad Al-Biruni, uno scienziato persiano del XII secolo. A dir poco insolito. Nel disco c’era uno strano pezzo intitolato L’ombra della luce, non certo dei suoi più famosi, anzi, una mini-sinfonia di 4 minuti che sprigionava una calma e trasognata serenità. Come se esibisse un frammento di assoluto. Il pezzo aveva qualcosa di misterioso, come fosse dovuto a logiche poco attinenti al mondo della canzone, ed effettivamente quando gli chiedemmo ragione di questa sensazione lui rispose con uno sguardo consapevole e commosso: “sì, è proprio così, quel pezzo è arrivato da altrove”. Confessò che gli aveva attraversato la mente mentre era assorto in meditazione. Era fatto così, si commuoveva per queste visioni, non certo per i sentimenti ordinari, per gli amori cantati, e la sua rivoluzione l’aveva portata avanti proprio così, combattendo gli stereotipi, le rime facili, i mielosi sentimentalismi. E del resto in quello stesso disco c’era anche Povera patria, la più struggente elegia cantata in Italia di fronte allo scempio della bellezza e della dignità umana. Un pezzo da ascoltare sempre, come una salutare prescrizione medica, come un compito da assolvere nelle scuole.
Alle canzoni c’era arrivato quasi per scommessa. Anzi ci era tornato per scommessa, perché i suoi primi anni nella musica furono milanesi, alla corte della grande editoria musicale del tempo, in Galleria, dove si era trasferito abbandonando la natia Sicilia, e dove provò effettivamente a fare il cantantino commerciale per qualche anno, seppure con scarsi esiti, ma è l’unico passato che Franco rinnegava. Non amava quella roba, non la ricordava con simpatia.
La sua storia cominciò davvero nel 1971, quando uscì dalle nebbie purpuree della rivoluzione come artista devastante e minaccioso, autore di dischi avanzati e sperimentali come Fetus e Pollution e protagonista di spettacoli che stordivano o addirittura facevano infuriare gli spettatori. Era spietato, abnorme, col volto trasfigurato dai trucchi, una vocazione all’“épater le bourgeois” che tutto sommato gli è rimasta addosso per tutta la vita, anche quando da quelle lussureggianti provocazioni era passato a qualcosa di più consonante. Ma è vero che i successi arrivarono per scommessa, come lui stesso ha raccontato anni dopo, ricordando di aver risposto alla provocazione di un pugno di giornalisti musicali, tra cui il sottoscritto, radunati intorno alla rivista alternativa Muzak, che gli dissero che forse, se anche avesse voluto scrivere canzoni popolari, non ne sarebbe stato capace.
Detto fatto, si mise a scrivere canzoni, anche se il primo dei dischi della nuova “era”, alla lettera L’era del cinghiale bianco, sembrava tutt’altro che popolare, ma era un gioiello, delicato e suggestivo, intrigante, ipnotico, capace di indicare una strada nuova percorsi che la nostra canzone non aveva m ai battuto. E non erano solo gli argomenti, fascinazioni mistiche, esoterismi, citazioni colte, era il linguaggio stesso che era inedito, una scelta quasi oggettiva, senza partecipazione emotiva, spesso incastrando frasi con una tecnica di montaggio frammentata e surreale, con perle di staordinaria bellezza come Stranizza d’amuri, ben ribadita dal seguente Patriots, il suo secondo capolavoro, con Veneza-Istanbul, Prospettiva Nevski, dove si definisce ancora meglio quel sorprendente modo di intendere melodie e parole, e poi l’esplosione commerciale che arrivò puntuale e travolgente con La voce del padrone, con pezzi che sembrarono inni intelligenti e spiazzanti dell’alba degli anni Ottanta, ovvero Bandiera bianca, Cuccurucucù e Centro di gravità permanente, una sbalorditiva sequenza che andò a celebrare un periodo irripetibile della canzone d’autore italiana e che portò al livello di massa idee e concetti che nessuno avrebbe mai potuto immaginare solo qualche anno prima.
Di quel clamoroso successo Battiato era allo stesso tempo lusingato, appagato, ma anche infastidito. Dopo aver dimostrato che era possibile, che grazie anche a un periodo di fertile Rinascimento culturale, si poteva utilizzare la canzone per fare arte, ironica, leggera, ma allo stesso tempo incisiva e a suo modo profonda, decise che bisognava andare avanti, migliorarsi, tornare ad atmosfere più pacate, più adatte al suo modo di concepire la musica e la performance. Il tono si fece più dolente, riflessivo, ma sempre più prezioso, e furono E ti vengo a cercare, L’oceano di silenzio fino alla inarrivabile La cura, tutti pezzi che possedevano l’insondabile ambiguità del doppio significato, rivolti ad amori terreni, così come a pensieri astratti, celesti, spirituali.
In realtà Battiato è stato anche tante altre cose, regista di film, autore di opere incredibilmente aliene e anche quelle lontane dagli stereotipi classici, pittore, generoso benefattore di giovani musicisti al cui appello non ha mai saputo né voluto resistere, autore di canzoni per altri e soprattutto per tante voci femminili che ha coltivato come un’arte a se stante, da Alice a Milva. In fin dei conti è stato soprattutto un accanito ricercatore di arte e spiritualità, non disposto a compromessi, rigoroso, coerente. A volte sembrava spigoloso, quasi burbero, ma in genere capitava quando si trovava di fronte all’imbecillità o all’ignoranza, quelle davvero non le sopportava, altrimenti era gentile, protettivo, un uomo che aveva scelto la musica per raggiungere un obiettivo che andava molto al di là della musica stessa. Per questo il suono gli era sacro, per questo l’atto della composizione era per lui il più sublime e insostituibile dei gesti umani, l’unico in grado di elevarci, di portarci in prossimità di quella verità che ha inseguito per tutta la vita, fino all’ultimo dei suoi giorni terreni.
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