Eloquenza di una morte
| di Antonio CalicchioNella tomba di Giovanni Falcone non vi è un corpo, ma vi sono dei semi che germineranno al sole di una sempiterna primavera
Ho contemplato, in vari luoghi e momenti, il viso cogitante nelle foto che raffigurano Giovanni Falcone, la cui morte esprime, a un tempo, avvertimento e monito; avvertimento, per tutti i magistrati, indifesi difensori di quei valori fondativi di una repubblica democratica non inquinata dalla criminalità organizzata: la vita, la libertà, la giustizia, l’ordine civile. Monito, soprattutto per quei giudici che, al pari di Falcone, operano in zone di frontiera e si ritrovano soli, delegittimati, disarmati, privi di mezzi, sguarniti di protezione, oberati di lavoro e destinati a tragica fine, se osano infastidire il “mostro dalle cento teste”, che lo Stato stenta ad abbattere.
Il 23 maggio 1992, a pochi chilometri dall’aeroporto di Palermo, allo svincolo per Capaci, una potente carica di esplosivo, telecomandata, uccide Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, in una strage che rivela il volto della criminalità e la grandiosità dei “martiri della giustizia”.
Il 19 luglio stesso anno, ancora una tremenda carica di esplosivo, a Palermo, in via D’Amelio, deflagra, sopprimendo la vita a Paolo Borsellino e alla scorta. Egli, nel trigesimo della morte del collega, fa curiale riferimento al “sacrosanto diritto di continuare la lotta per il Bene” e sollecita ad “accettare la gravissima e bellissima eredità di spirito dell’amico morto nella carne, ma vivo nello spirito, come la fede insegna”. Ed ammonisce, con geometrico nitore: “Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti. Abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera, facendo il nostro dovere … testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere … “. Il 24 luglio 1992, nella chiesa di S. Lucia de Marillac, si officia il rito funebre per Borsellino. Alta si leva nel tempio la voce del Presidente della Repubblica Scalfaro, trascendendo ogni formalismo di ordine politico: “Non si disperda, Signore, la sconfinata, umana e spirituale ricchezza che esce da tanta somma di sacrifici e di sangue”.
La folla, fuori accalcata, commossa, si associa alla preghiera, accompagnata da non pochi giovani, assisi sotto un lungo striscione, con enunciato enfaticamente e predittivamente metaforico: “Non li avete uccisi. Le loro idee camminano sulle nostre gambe”. Due anni prima, stessa sorte stronca l’esistenza di Rosario Livatino.
Eloquenza della morte!
Più che mai vivi sono Falcone, Borsellino, Livatino ed altri, come loro, martiri, che sull’altare della Giustizia “hanno immolato la vita per un atto di amore alla propria terra”. Per loro, l’Ideale è valso più che la vita, pura e diafana come il cielo, che ha assistito, inorridito e inerme, al loro massacro. Urla la morte il loro messaggio di fede e di speranza, dacché hanno abbandonato la terra dei “viventi”, molti dei quali, dimentichi sovente della loro dignità di uomini, “sono vivi” – come scriveva Seneca, nelle Epistole morali a Lucilio – “solo di nome, sì che sulla soglia delle loro case di marmo si potrebbe incidere: hanno precorso la loro morte”.
Falcone parla, principalmente ai giovani: egli che ha amministrato la giustizia, che non ha mai condizionato la sua delicata e complessa missione alla volontà e al potere dei potenti, che, in forza della sua fedeltà al diritto e alla giustizia, è stato assassinato da coloro che avrebbero voluto piegarlo al “legalismo ideologico e pratico” della violenza, del sopruso e della iniquità. La sua morte intende letteralmente rammentare che siamo tutti astretti al nostro dovere, da adempiere sempre, ovunque e ad ogni costo. Per questo, egli è un testimone ed un esempio luminoso per ciascuno e primariamente per chi è investito di un munus giurisdizionale, ovverosia della funzione di ius-dicere: funzione, peraltro, alta e ardua del metabolismo statale, che l’uomo possa essere chiamato ad assolvere, giacché implica umiltà, professionalità accurata ed aggiornata, scrupolosità di ricerca e studio paziente dei “fatti”, posti a giudizio, ai fini della applicazione della norma sostanziale e procedurale: “facta probantur, iura deducuntur”!
Si è detto da qualcuno che Giovanni Falcone “toccò i fili dell’alta tensione. Ingenuo! Doveva aspettarsi quella fine”. Una speranza fra tanta mestizia: che si moltiplichino gli “ingenui”. E si moltiplicheranno, se troveranno tutela in uno Stato di diritto e di giustizia e si conformeranno alla dottrina socratica che “non il vivere si deve tenere in maggior conto, ma il vivere bene, cioè secondo onestà e giustizia”, come è dato leggere nel Critone, di Platone.
Si realizzerà, quindi, il miracolo cantato da Milton, Nella mattina della Natività di Cristo, che chiaramente riecheggia il succitato Salmo:
Sì, fedeltà e giustizia allora
ritorneranno fra gli uomini,
avvolte in un arcobaleno;
gloriosamente vestita
la pace siederà in mezzo
raccogliendo ai suoi piedi scintillanti
un tessuto di nubi
e il cielo come per una festa
aprirà totalmente
la porta del suo grande palazzo.
L’intemerato stigma lasciato da Giovanni Falcone è viva pedagogia morale, sociale ed istituzionale di cosa siano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
Dalla Costituzione si inferisce che “la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (artt. 1 e 4) e che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101): è civiltà giuridica.
Però, se il magistrato non avverte il bisogno di incarnare e di introiettare questi valori, allora l’affermazione della Costituzione resta astratto teorema di principi generali, che non si traduce in vita concreta ed effettiva.
Pertanto, il magistrato deve essere autonomo e indipendente, ma deve pure “apparire” tale.
Nessun corpus normativo positivo dona coraggio a chi non lo possiede.
Il prepotente reclama il diritto al privilegio: e guai a coloro che a causa di pavidità o, peggio, di personale interesse, si prestano alla bisogna!
In Parlamento è materia di discussione l’ennesima riforma metamorfica dell’ordinamento giudiziario: sempreché i due valori costituzionali testé riportati non vengano, con pitturazioni verbali e contenutistiche, lesi e feriti, così da poter garantire sempre che la giustizia sia autenticamente giustizia.
Giovanni Falcone simbolizza un richiamo per tutti ed una esortazione al ripensamento per chi ancora qualifica il giudice quale nefasto hostis publicus da atterrare.
Nessuno pensa che non vi siano o non vi siano stati errori e colpe commessi da singoli magistrati; ma civiltà giuridica postula che il magistrato sia super partes, sia sereno ed oggettivo, sia coraggioso, fermo e sempre homo humanus.
Falcone – e non è stato il solo – ha pagato col sacrificio della vita la sua limpida osservanza di siffatti valori.
Che questo Testimone sia latore di luce e, ove necessario, ripristini la giustizia.
E che Dio ci aiuti a non dissolvere la valenza rigeneratrice di questo eroico martirio umano, civile e cristiano.
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