Enzo Gragnaniello si racconta: «Non posso fare a meno delle mie radici»
| di Marianna ValloneInterprete autentico di una città variopinta e accogliente, in cui è nato e vive. Enzo Gragnaniello nella sua musica ha messo sempre molto di se stesso e della sua Napoli. Autore e musicista raffinato, racconta il suo legame speciale con la città e anticipa l’album con i Solis String Quartet a cui sta lavorando. Reduce da alcuni concerti nel Cilento, a Gioi e a San Giovanni a Piro, è da poco uscito anche con un nuovo album che arriva a quattro anni di distanza dal precedente “Misteriosamente”.
Il 26 aprile è uscito il suo ultimo album “Lo chiamavano vient’ ‘e terra”, come mai questo titolo?
Il titolo parte da una canzone, intitolata così, un brano autobiografico. E’ nato così, mi sembrava giusto come titolo dell’album. E’ un disco a cui tengo molto, perché racconta esperienze personali, vari episodi e esperienze della mia vita, da quando da piccolo giravo per i vicoli di Napoli a quando non ancora adolescente scappai a Milano, percependola come la città più lontana in cui evadere.
Dei dodici brani che contiene questo album, qual è quello a cui è più legato?
Sono legato a tutto il disco, perché c’è un filo conduttore tra un brano e l’altro. Parla della delinquenza, degli uomini ego, della mia parte passionale, del mio romanticismo, è tutto un viaggio poetico se vogliamo.
Il brano “Cu’mme”, interpretato anche da Mia Martini e Roberto Murolo, è stato tradotto in tante lingue ed è un inno della canzone napoletana moderna. Com’è il suo rapporto con questa sua canzone?
E’ una canzone che mi ha dato molte soddisfazioni artisticamente, ma è una delle tante canzoni che scrivo con una simbologia. Il rapporto è sicuramente speciale. Ad un certo punto dice “si tu nun scinn’ ‘nfunn’ nun ‘o può sapè ”, ecco, io continuo a comporre pensando di avere radici profonde per far arrivare i rami nel cielo, dove, come le foglie, tutto si rinnova. Non scrivo canzoni napoletane che parlano di Napoli, canto in napoletano come se fossi un frammento della città, non come un napoletano. Sono un napoletano che canta l’universo, non la sua Napoli, sarebbe un po’ riduttivo. Io racconto la sua anima, il suo pensiero.
La sua musica è anche una riscoperta delle sue radici popolari, cosa pensa della musica popolare di oggi?
Non bisogna mai dimenticarla, perché sono le radici. Se ci globalizziamo si fa del calcare intorno all’essenziale, a qualcosa che è importante per la cultura, per la poesia, per l’arte. La musica popolare è la base antisismica di ogni cultura.
Ha girato il mondo ma hai sempre detto che l’energia che ha trovato a Napoli non l’ha trovata mai da nessuna parte, perché?
Come dicevo prima mi sento un frammento della città, sento la città ed me come fossimo la stessa cosa. Ne percepisco gli umori, il suo modo di vivere, la sua quotidianità. E’ una città circondata da vulcani, dalla pietra di tufo, dal mare e dal vento. Ha tutti gli elementi a disposizione, tutti molto forti. Le persone sensibili questo lo avvertono, non posso fare a meno delle mie radici.
A quale altro progetto sta lavorando?
Sto finendo un disco con i Solist string quertet, un quartetto di archi. Stiamo finendo di registrare un disco solo voce ed archi dedicato ai grandi poeti internazionali, come Jacques Brel, Lou Reed, Astor Piazzolla, tutto tradotto in italiano. E’ un lavoro emozionante.
Di recente in concerto a Gioi Cilento e prima ancora, a settembre, a San Giovanni a Piro, questo territorio le vuole bene. Che rapporto ha con il pubblico salernitano e cilentano?
Dico che sempre che cerco di trasmettere emozioni sempre alla parte essenziale, allo spirito e non all’involucro. Non ci sono etnie nel linguaggio della musica, nel Cilento mi hanno sempre accolto bene, così come in tutta la provincia di Salerno. Ogni concerto devo dire è stata sempre una bella esperienza.
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