Evoluzione della società italiana e opportunità per il Mezzogiorno, l’intervista ad Alfonso Conte

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Evoluzione della società italiana e opportunità per il Mezzogiorno, l’intervista ad Alfonso Conte

di Giangaetano Petrillo

«Spero che al Cilento siano destinati maggiori investimenti pubblici», questo l’auspicio del professore Alfonso Conte, professore associato di Storia Contemporanea, al corso di laurea di Scienze Politiche all’Università degli Studi di Salerno. Lo abbiamo contattato per farci raccontare il suo punto di vista sull’evoluzione della società italiana e su quali possono essere le opportunità di rilancio per il Mezzogiorno. «Se, dopo molti anni, non siamo ancora in grado di rilanciare la questione, forse abbiamo rappresentanti politici poco autorevoli, o forse pensiamo di dover ancora espiare le nostre colpe».

Professore, lei si è laureato discutendo una tesi dal titolo Antifascismo e antifascisti a Salerno. Sospettava all’epoca che molti temi legati al fascismo sarebbero stati sdoganati come successo in questi ultimi anni?
Pensavo che nuove generazioni, grazie a livelli più elevati di istruzione ed all’apporto di tecnologie più evolute, avrebbero contribuito ad un rilevante progresso culturale, in grado di riflettersi anche sulla qualità della democrazia italiana, agevolando una partecipazione più consapevole ed attiva, promuovendo politiche pubbliche a sostegno dei ceti più deboli. Oggi non lo penso più.   

A partire dal 1919 con i sansepolcristi,  la piazza ebbe la meglio sul Parlamento, sulla democrazia rappresentativa. Possiamo trovare un certo parallelismo con alcune forze della politica attuale che invocano incessantemente la piazza?
Parlamenti e piazze, oggi soprattutto piazze social, costituiscono due livelli necessari delle democrazie moderne. I problemi nascono quando si pensa di cancellare uno dei due livelli o quando la crisi dell’uno spinge a cercare nell’altro la via d’uscita. In ogni caso, la maturità di un sistema democratico è testimoniato soprattutto dal suo parlamento e dalle sue piazze, dai rapporti che li legano.

Nel 1915 Gabriele D’Annunzio, con le Giornate di Maggio, organizza per la prima volta in Italia delle manifestazioni di piazza che divengono uno strumento politico. Come possiamo, oggi, distinguere una piazza fascista da una piazza repubblicana, democratica. Qual è, semmai dovesse esserci, il discrimine?
Quello previsto dalle leggi che regolamentano le manifestazioni pubbliche. Per il resto la funzione principale della piazza è di operare pressione nei confronti di chi deve decidere, mentre sono i parlamentari a dover stabilire quando e se accogliere le istanze provenienti da alcune piazze, come interpretarle, quale peso attribuirle. Fino alle successive elezioni, quando si potrà svelare l’orientamento popolare prevalente. Resta il problema dei politici troppo inclini a suscitare l’applauso, ad assumere le posizioni gradite alle piazze più rumorose. Ma anche tale problema andrebbe ridimensionato attraverso l’esercizio maturo dell’espressione di voto.

Abbiamo visto come negli ultimi anni anche un uso del linguaggio troppo violento abbia, diciamo, solleticato un certo neofascismo. Se non nei metodi repressivi, fortunatamente oserei dire, quantomeno in alcuni atteggiamenti verso il Parlamento, gli avversari politici, la libertà di stampa, e persino con gravi offese rivolte al Presidente della Repubblica. Possiamo realmente derubricarli come semplice e inoffensiva minoranza?
Quando la democrazia parlamentare è in crisi, cresce il numero di chi pensa di poterne fare a meno. Fin dai primi anni della Repubblica, abbiamo scelto di limitare al minimo l’uso di sanzioni e censure per reprimere atteggiamenti neofascisti, intendendo in tal modo sottolineare la superiorità del metodo democratico. Ritengo motivo di orgoglio continuare a pensare l’antifascismo ancora oggi in tali termini.

Disservizi, mancanze di infrastrutture e di opportunità lavorative sembrano evidenziare sempre più una distanza inesorabile tra le regioni del sud e quelle del nord. A cosa è dovuto tutto ciò e come si può intervenire per invertire la rotta?
A partire dagli anni ottanta, in coincidenza degli scandali collegati alla ricostruzione post-terremoto ed al successo della Lega, si è interrotta una lunga tradizione di analisi ed interventi aventi come oggetto la questione meridionale, intesa come problema di tutti gli italiani. Da allora hanno prevalso le richieste dei settentrionali riguardanti il federalismo fiscale e l’autonomia amministrativa, mentre ogni domanda del Sud e per il Sud è stata agevolmente liquidata come possibile occasione di corruzione e spreco di risorse pubbliche. Se, dopo molti anni, non siamo ancora in grado di rilanciare la questione, forse abbiamo rappresentanti politici poco autorevoli, o forse pensiamo di dover ancora espiare le nostre colpe.  

Quali sono, da storico che ha studiato e analizzato molto il meridione, gli asset strategici per un forte rilancio del meridione d’Italia? Possiamo continuare a sopravvivere di solo turismo?
Come dimostra anche l’emergenza che stiamo vivendo, è rischioso per qualsiasi sistema economico puntare tutto su un’unica risorsa. L’esperienza storica ci dice che il Mezzogiorno è stato in grado nel passato di esportare i frutti della sua terra, produrre manifattura di qualità e sviluppare relazioni commerciali, cogliendo l’opportunità di trovarsi al centro del Mediterraneo. Negli ultimi tempi, alcuni giovani stanno dimostrando come sia possibile restare, ma le politiche pubbliche non sembrano cogliere questi segnali di cambiamento e restano colpevolmente ancorate a modelli di sviluppo ormai superati.

Una provocazione, che spero colga. Bisognerebbe ripartire da una riforma scolastica che dia un giusto rilievo alla storia dell’Italia meridionale?
Più che all’ennesima riforma relativa ai programmi ed all’organizzazione, auspicherei una rivoluzione culturale, finalizzata a contrastare i dominanti criteri di utilitarismo ed opportunismo dominanti ad ogni livello, a promuovere senso critico e spirito di iniziativa nelle più giovani generazioni. In un tale contesto, non vi è dubbio che la storia del Mezzogiorno, come parte della storia europea ed occidentale, meriterebbe un rilievo maggiore. Ma è anche vero che, anche in assenza di riforme e manuali di storia adeguati, per studenti e docenti motivati dovrebbe essere comunque agevole accedere a saggi fondamentali, come ad esempio quelli di Giuseppe Galasso.  

Questa emergenza ha mostrato anche alcuni ritardi nella digitalizzazione scolastica. Abbiamo tutti notato quali siano state le difficoltà con la didattica online. Da docente universitario, di una delle eccellenze universitarie del sud e d’Italia, quali suggerimenti si sente di dare e quali, eventualmente, le mancanze da evidenziare.
Le lezioni in presenza sono indispensabili, vivendo la formazione di interazione continua tra docenti e discenti. Tuttavia, la mia forzata e recente esperienza mi ha aiutato a comprendere come sarebbe importante continuare ad erogare anche corsi a distanza per studenti impossibilitati a seguire le lezioni in aula. Allo stesso tempo, bisognerebbe aiutare tutti a dotarsi degli strumenti necessari, soprattutto garantendo la possibilità del collegamento anche nei piccoli centri abitati delle aree interne.

Il Cilento, al quale ha dedicato molti dei suoi studi, è il parco più esteso d’Italia. Eppure oltre alle bellezze naturalistiche e storico-paesaggistiche soffre una grave mancanza di servizi. Vede oggi l’opportunità, dopo l’emergenza pandemica, che la politica decida di investire al sud? Sentiamo da tempo parlare di piano shock, o sblocca Italia.
Spero che al Cilento siano destinati maggiori investimenti pubblici, ma auspico ancor di più che il Cilento riesca ad attrarre maggiori investimenti privati, soprattutto quelli basati su idee creative e metodo cooperativo, effettuati da giovani cilentani determinati a progredire senza lasciare la propria terra, anzi in tal modo aiutandola a rialzarsi. L’emigrazione giovanile, ancor più evidente nelle aree interne, richiede interventi straordinari dall’alto e dal basso, mobilitazione di esponenti politici a livello europeo e nazionale, ma anche di amministratori e comunità locali, di agenzie educative ed operatori della comunicazione, delle forze attive sui territori. Una risposta di tutti per vincere una sfida difficile, ma non impossibile.    

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