Funara d’erba, cordonara, libanara, strambaia: un po’ di storia
| di Angelo GentileIl giorno 20 e 21 aprile si è tenuto a Lentiscosa un interessante evento rievocativo della falciatura, battitura, intreccio, arrotolamento a mano dell’erba spartea detta “tonnara”, essendo utilizzata appunto anche nelle tonnare della costa meridionale del Tirreno da epoche remote. L’evento è stato fortemente voluto dal “Comitato civico Lentiscosa è donna” e dal CAI di Monte Bulgheria sempre attento alla cultura dei territori cilentani. Durante la giornata del 21 sono stato chiamato a parlare della lavorazione dell’erba spartea e, quindi, di specificare meglio la storia delle ‘libanare’ e dell’economia legata alla lavorazione dei ‘libani’ ovvero delle funi d’erba. Protagoniste tre donne Pasqualina, Maria e Maria che si sono mostrate al folto pubblico durante la realizzazione dei ‘libani’, aiutandosi nel ritmo lavorativo con canti popolari.
C’è da dire che l’ ‘erba spartea’ o ‘tonnara’ è conosciuta con altri nomi in diverse località dell’area mediterranea in cui cresce spontanea ed è stata utilizzata da tempi antichi per legare, per lo più le viti. Il nome scientifico, infatti, è Ampelodesmas mauritanicus, il primo termine di derivazione greca indica la vite ed il legaccio, mentre mauritanicus rimanda al Magreb, forse per un uso legato alla pesca dei tonni che gli arabi hanno introdotto in Sicilia e Calabria. Quest’erba è conosciuta col nome di Vella in Abruzzo, Liami in Sicilia, Disa a Palermo, Sarracchio in Toscana, Gutumara o Lisara in Calabria, Erba Lisca in Liguria, Stramma o “Stramba” nel Lazio e infine Tonnara nel nostro Cilento e nella riviera dei Cedri. Comunque venga chiamata l’utilizzo è sempre lo stesso: legami, corde sia per gli usi comuni che per la pesca. In quest’ultimo caso si può dire che la produzione delle funi/corde vegetali sia una vera e propria attività protoindustriale (sia per la mano d’opera impiegata, sia per i traffici che per i risvolti economici) o almeno industria a domicilio mancando strutture appositamente previste, tranne che per i depositi degli accaparratori. I ‘Libani’ erano inviati via mare alla costiera napoletana per gli allevamenti, numerosi, dei mitili ivi esistenti, altrimenti erano utilizzate per le tonnare sparse un po’ ovunque della costa tirrenica: in questo caso si evidenzia che nel 1811 il sindaco di Centola, Rinaldi, nello scrivere all’Intendente di Salerno della tonnara di Palinuro specificò che i libani, mancando sul posto, si potevano avere dal vicino comune di Camerota. Quello delle tonnare era un’attività altamente specializzata e che muoveva diversi ingenti capitali, centinaia di ducati per il fitto, poi altri per l’attivazione, per le reti e per il personale impiegato, composto da un rais o capo della tonnara più gli addetti in numero di circa 25 marinai, nel caso del Cilento erano arruolati dalla costa amalfitana e dalla Calabria. Una vedetta era invece posizionata a terra in posizione elevata e doveva avvertire l’arrivo dei tonni. Le tonnare erano di due tipi, siciliana e napoletana. Una volta pescati, i tonni erano lavorati sul posto prima di essere avviati nei luoghi dello smercio, in genere le città. Una parte piccola del pescato rimaneva a disposizione del territorio, ma il prezzo della merce era causa di litigi continui tra l’affittatore ed i residenti, così come la proibizione ai marinai locali di fare attività di pesca vicino alla tonnara.
Volendo ricostruire storicamente l’uso dei ‘libani’ si può risalire al secolo XIII, a quest’epoca molti storici fanno risalire l’uso di cordami vegetali per allestire le reti per la cattura dei tonni. Si parla di Castellabate o di Pisciotta, anche se personalmente credo che l’erba era lavorata a Rodio di Pisciotta avendo trovato traccia di tale lavorazione nella tradizione di questo piccolo borgo. Anzi in epoche successive, quando altri paesi lavoreranno l’erba tonnara le donne di Rodio erano conosciute per una migliore specializzazione (nel senso della sottigliezza del manufatto utile per allestire reti) con il nome di “filannaia” o “filandaia” (anno 1817).
I documenti da me studiati riportano ad un’intensa lavorazione dell’erba spartea proprio a Lentiscosa e sulla sua costa: se nel catasto onciario del 1741 non v’è traccia di lavoratrici o lavoratori specifici ho rinvenuto una tale Teresa D’Avenia, figlia di Antonio e Rosolina Talamo originari di Positano, nata nel 1711 e deceduta il 5 agosto del 1812, quindi di ben 101 anni, madre di 8 figli avuti da due matrimoni, il primo con Decio Cimmino e l’altro con Benedetto Tarallo. A parte l’età, ciò che più interessa è l’espressione che la identifica: “funara”. Questo è il primo appellativo ed è legato alla lavorazione dell’erba spartea e ricorre più volte nei documenti, con la dicitura “funarad’erba”, questa specifica diversificava il termine “funara” perché in più parti dell’antico Regno delle due Sicilie esisteva il “funaro” o “mastro funaro” sin dal 1600. Ad esempio nella frazione di San Angelo di Mercato San Severino ne esistevano 11 che lavoravano la canapa o anche il lino per fare funi. Nei primi anni dell’Ottocento segue altro nome che si affianca a “funara”, cioè “cordonara” (sempre ‘d’erba’), è legato alle donne, ma in due casi c’è un uomo, tale Vincenzo Romano e Nicola Tarallo. Il mestiere si tramanda di madre in figlia. Non posso tacere che man mano che la costa si popolava arrivavano “specialisti” della lavorazione dell’erba com’è avvenuto per Teresa D’Avenia (da Positano), o Benedetta Mazzeo (famiglia di San Giovanni a Teduccio) sposata Bagnati, Chiara Talamo (famiglia di Positano) o Francescantonio Gentile (da Parghelia famosa per le sue tonnare onde lavorare nella tonnara di proprietà del marchese di Camerota), ma anche Chiara Troccoli porta la sua esperienza nella lavorazione delle erbe venendo da Pisciotta col marito Francesco Mautone. Per questi ultimi la loro sistemazione è nel villaggio di Marina, vicino alla cappella di San Nicola o anche nelle case d’affitto appositamente costruite, allorquando la popolazione cresce. Anzi quasi tutte le prime famiglie che abitarono la marina che verrà detta poi di Camerota hanno più ‘funare’ e ‘cordonare’ e i cognomi si ripetono negli anni, aumentando solo il numero degli addetti. Ad esempio nel 1859 ben 130, tutte donne, lavoravano “i libani” in tutto il comune di Camerota, 90 erano del villaggio Marina. Vennero utilizzati anche altri nomi per indicare chi lavorava l’erba spartea, nel 1836 troviamo “libanara” usato due volte (famiglia Fasanaro e Bruno, quest’ultima nativa della Marina di Scario) e nel 1865 “strambaja”. Tenendo conto che i termini ‘funara’ e ‘cordonara’ sono utilizzati per molti anni in contemporanea, si può pensare che la lavorazione dia prodotti diversi: col termine ‘funara’ si doveva indicare la lavorazione sic et simpliciter per ottenere le funi utilizzate ad ampio spettro e non solo marinaresco; col termine ‘cordonara’ ipotizzo una lavorazione più complessa ovvero intreccio ulteriore delle funi più volte per ottenere un prodotto molto resistente come quello del l’impianto della tonnara o quello che l’ancorava agli scogli e la sorreggeva (“piede della tonnara”). Il termine “libanara” dovrebbe essere legato al semplice taglio dell’erba ed al suo trasporto con e senza l’ausilio di animali: erano le stesse donne che, creati dei grossi fasci d’erba, li trasportavano sul capo in perfetto equilibrio e per chilometri di sentieri malagevoli aiutandosi con un fazzoletto di cotone arrotolato posto sui capelli (“spara”). Questa idea è rafforzata da un episodio di taglio d’erba spartea illegale accaduto nel luglio-agosto 1836 di cui si occupò il giudice di pace di Camerota: le due donne coinvolte furono private della libertà e solo il versamento della garanzia da parte di colui che aveva affittato il taglio d’erba le fece uscire dal carcere a cui erano state condannate (sette anni!) e dopo appello alla Gran Corte Criminale che ebbe a dichiarare estinta l’azione penale con il Reale Indulto del 26 gennaio 1837. Si era trattato di uno sconfinamento in un terreno limitrofo per mero errore di indicazione di confini. Il fatto sottolinea l’importanza redditizia della falciatura d’erba spartea, tanto che il giudice aveva chiamato due periti di campagna per valutare il danno. L’ultimo termine, “strambaja” compare in un solo caso e dopo l’Unità: muore nel 1865 a 36 anni Antonia Troccoli sposata Talamo, ma la stessa alcuni anni prima è nell’elenco delle lavoratrici dell’erba spartea, senza specificazioni. Il termine ‘strambaia’ fu importato, forse, dal Lazio meridionale. In epoca successiva, lo ritrovo per Marina di Camerota. Per antichità andrebbe usato il primo termine in assoluto cioè “funara d’erba”.
Tutti gli articoli di Angelo Gentile, ricercatore archivistico e pubblicista
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