Alla riscoperta dei giochi dei nostri nonni
| di Emilia Di GregorioI giochi cilentani per i più piccini erano calmi e ripetitivi, caratterizzati dal ripetersi di simboli religiosi e aspetti legati ai cicli della natura. Non c’era bambina che non conosceva le cónte, girotondi accompagnati da lunghe cantilene tramandate da nonna a nipote. Al centro del cerchio, espressione del centro come fonte di vita, vi era una di loro, la Rigìna. I versi cantati potevano riguardare diverse tematiche. Ad esempio, quella che proponiamo qui di seguito ha dei riferimenti alle attività del mondo contadino:
quanta penne tène ncòppa?
Ni tène vintitrè:
uno, rui e trè!
E tenìa nu salamiéllo:
miezzo a me, miezzo a te,
miezzo a la figlia re lu Re!
La gallina salta e zoppica,
quante penne ha addosso?
Ne ha ventitré:
uno, due e tre!
Ed aveva un piccolo salame:
Mezzo a me, mezzo a te
Mezzo alla figlia del Re!
Nelle serate di maggio, ogni bambino aspettava l’imbrunire per andare fuori di casa a rincorrere le lucciole, in dialetto cilentano catacatàsce. Una simpatica strofetta era un po’ la formula magica per cercare di attirarle:
Catacatàscia, scinni abbascio:
mò te véo, mò te scascio!
Immancabile tra le braccia di ogni bambina era la pupa re pezza, classica bambola di stoffa che veniva fuori dalla fantasia delle nonne cilentane nel mettere insieme diversi pezzi di stoffa (strofinacci, asciugamani). Le più rudimentali erano fatte per uso estemporaneo, non presentavano cuciture e ciò che era stato usato ritornava poi al suo posto. Con i carboncini venivano disegnati i tratti del viso. Nella foto accanto vediamo delle bambole costruite con accortezza e vestite proprio alla maniera cilentana. Hanno tutte la gonna lunga con i grembiule, u’ mantesino (dal lat. “ante sinum”), la classica scolla bianca che copre la camicia e va ad incrociarsi in grembo e, infine, u’ maccaturo (dal lat. “mucare”, dallo spag. “mocador”).
I giochi più diffusi tra gli adolescenti erano basati sulla destrezza, sull’agilità, sulla velocità e sulla coordinazione. Il gioco era di tipo collettivo-creativo e ad alto contenuto simbolico. I più noti sono u’ strummulo, ‘a staccia e ‘u casecavàddo. Il primo consiste di una trottola di legno: lo scopo del gioco è quello di colpire la trottola avversaria senza far cadere la propria, che continua a girare e in questo caso rappresentava, nell’antico Cilento, la vittoria del Bene sul Male. La staccia era una piccola tegola di pietra, più o meno ben levigata per meglio afferrarla e lanciarla. Ogni giocatore si disponeva con la propria staccia per il lancio. Ad una certa distanza veniva disposto un altro pezzo di pietra con sopra delle monetine o dei bottoni, era una sorta di “birillo” e a turno si lanciava la staccia cercando di colpirlo alla base. Il gioco r’u casecavàddo necessitava di due o più squadre. Ogni giocatore aveva a sua disposizione un caciocavallo, vero o di legno, che lanciava il più lontano possibile. Generalmente, la meta prefissata era l’ultima casa del paese. Si sommavano i vari lanci e il vincitore si aggiudicava un caciocavallo vero. L’abilità sta nel saper accompagnare il peso durante il tiro controllato e riuscire a dare la giusta dose di forza al caciocavallo.
Attraverso i giochi, quasi sempre di gruppo, si può socializzare, ma soprattutto si apprendono e si rispettano determinate regole, si impara il valore del rispetto da dare e da ricevere. E, per quel che concerne i giochi cilentani, si scopre un bagaglio culturale di incommensurabile ricchezza: essi, oltre ad insegnarci tante piccole cose, si fanno portavoce della semplicità di un tempo, che sarebbe giusto rievocare e mettere in pratica nella società odierna.
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