Il genio di Shakespeare rivive nel dialetto cilentano: lo spettacolo a Capaccio Paestum
| di RedazioneVenerdì 8 settembre nel vestibolo dell’abate di Palazzo Tanza a Capaccio si svolgerà dalle ore 20 in poi lo spettacolo Shakespeare ‘n bonda a luna (e non solo) promosso dall’Associazione Hera creativa di Paestum e dall’assessorato alla cultura di Capaccio-Paestum. Le scene ed i sonetti shakespeariani sono stati tradotti ed adattati in cilentano antico da Oscar Nicodemo. Le voci che si alterneranno sono quelle di Bruna Alfieri, Stefania Ciancio, Lucia Maiorano, Domenico Tanza. Le musiche tratte da “Elisha in the chamber on the wall” arrangiate dal maestro Dario Marandino.
“Anche se dai suoi contemporanei veniva considerato un bravo e popolare drammaturgo, -sottolinea l’autore Oscar Nicodemo-ma non più di molti altri, la grandezza poetica di Shakespeare, ricca di contenuti e straordinarie sfumature, fu riconosciuta nel Settecento, quando diversi letterati e biografi cominciarono a raccogliere materiale critico e filologico sulla sua opera. L’interesse dei romantici si rivelò determinante: scoprirono nelle sue maggiori tragedie il prototipo del “genio inconsapevole” e il cantore delle grandi passioni.
Il Novecento, poi, ha consacrato Shakespeare come uno dei massimi autori della letteratura mondiale di ogni tempo, approfondendone lo studio e riconoscendo non solo l’assoluto valore poetico dei testi, ma anche la loro insuperata rappresentabilità; infatti, proprio perché concepiti per essere rappresentati, i drammi shakespeariani rivelano sulla scena e nelle trasposizioni cinematografiche la loro inesauribile vitalità.
Ora, può un linguaggio così passionale e potente, essere tradotto nel dialetto cilentano, conservandone l’armonia? Questa è la sfida dello spettacolo: abbassare il linguaggio shakespeariano fino al lessico popolare di un’area preziosa e significativa del Sud, senza disperderne la luce, mediante un’eufonia altrettanto poetica ed emozionale. Così, per esempio, il celebre inizio della Scena Prima dell’Atto Terzo del Monologo di Amleto:
“Essere, o non essere, questo è il dilemma:
se sia più nobile nella mente soffrire
colpi di fionda e dardi d’oltraggiosa fortuna
o prender armi contro un mare d’affanni
e, opponendosi, por loro fine?”
diventa, mediante un adattamento speculativo:
Avìmo r’a fà e da rìce, o nunn’avìmo ra fà niéndi: chésto, me ‘nguièta!
Si è cchiù ra òmmene suppurtà le mazzate re ‘na mala sciòrta
o n’avìmo arrevutà pe cumbàtte le péne nòste
ra mannà a fangùlo ‘na vòta pe sèmbe?”
La potenza, il suono e l’adattabilità del cilentano antico offre all’autore l’occasione per riscoprire lo spirito autentico di un lessico ormai in disuso, che può farsi lingua poetica anche nelle sue espressioni più spontanee e irriverenti, evidenziando una maniera popolare di intendere le lettere, la poesia, il verso. Ed è attraverso un processo del genere, che Nicodemo toglie ogni sovrastruttura al sentimento dell’amore e alle passioni, rendendo primitiva l’emozione e restituendole l’istinto primordiale della sua naturalezza e sfrontatezza.
La traduzione nicodemiana di Shakespeare non ammette sofismi, ma resta dolce e intensa, nell’altalenante gioco dell’amore, che diventa ironico quando, a sorpresa, l’autore capaccese introduce nel reading i versi contemporanei di un poeta come Osvaldo Celano, a fotografia di un luogo e di una terra, il Cilento, dove ciò che è popolare costituisce elemento culturale.
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