Il linguaggio come fonte e strumento di pensiero
| di Antonio CalicchioUna società interessata alla semplificazione linguistica, accelerando la comunicazione, nella prospettiva di una causa finale utilitaristica immediata, è una società volta al tramonto
Poche parole e pochi verbi comportano scarsa capacità di descrivere le emozioni e di costruire il pensiero. Gli studi rilevano che il Quoziente Intellettivo, di tutta la popolazione planetaria – il quale, dal dopoguerra agli inizi degli anni duemila, era sempre cresciuto – negli ultimi vent’anni, è calato; che una parte degli atti di violenza, nel contesto sia pubblico, che privato, scaturiscono dalla mancanza di capacità di rappresentare le emozioni, mediante le parole; e che il livello intellettuale decresce proprio nelle nazioni a maggior sviluppo. L’assenza di parole, atte a strutturare un ragionamento, rende impossibile il pensiero. Quanto più misero è il linguaggio, tanto più evanescente risulta il pensiero. Una società interessata alla semplificazione linguistica, accelerando la comunicazione, nella prospettiva di una causa finale utilitaristica immediata, è una società volta al tramonto.
E’ ben vero che, oggi, per affrontare numerosi problemi, occorre porsi alla ricerca della sintesi di una forma, il più possibile, semplice, pratica e lineare; tuttavia, appare altrettanto certo che la semplificazione suppone la “eliminazione”, ma l’eliminazione non può, e non deve, riguardare ed investire le fondamenta della nostra civiltà, altrimenti l’intera sua intelaiatura inevitabilmente crolla. Ed allora: quali sono le cause efficienti di questo fenomeno? Secondo ricerche condotte sull’argomento, esse sono rinvenibili nell’abbassamento del sapere linguistico, che riduce, il vocabolario utilizzato, ad una minor quantità di termini, così da impedire la formulazione di un pensiero. Ed infatti, la progressiva sparizione dei tempi – dal congiuntivo all’imperfetto, dalle forme composte del futuro al participio passato – dà origine ad un pensiero al presente, ristretto al momento, mentre la estinzione delle maiuscole e della punteggiatura costituisce una ferita esiziale inferta al rigore, alla accuratezza ed alla svariatezza delle espressioni lessicali.
La storia riferisce che, lungo il corso dei secoli, tutti gli Stati dittatoriali si sono sempre premurati di attuare la negazione e l’esclusione dell’elaborazione concettuale, proprio attraverso la limitazione della quantità delle parole e della loro semantica. E, dove manca il pensiero, là manca il pensiero critico, in quanto non si dà pensiero senza parole. Del resto, l’impoverimento e la banalizzazione della mente umana rappresentano il portato di quelle concezioni culturali le quali sostengono l’esigenza della semplificazione ortografica, dell’abrogazione dei generi, dei tempi, delle sfumature, vale a dire di tutto quanto genera complessità. Con la conseguenza che la povertà di linguaggio viene ad identificarsi con la correlativa povertà di idee e di concetti; e che la rudimentalità lessicale è accompagnata da un autentico rachitismo logico. Ad avviso di simili concezioni, tutto ciò sarebbe da ricondurre all’attuale evoluzione da una “civiltà del discorso e del pensiero” ad una “civiltà del numero e della tecnica”, che determinerà, come esito ultimativo, “la morte delle idee e del linguaggio”. Ma, va sottolineato, sul punto, che, se l’uomo è divenuto tale, è proprio in virtù del pensiero e della parola, ovverosia di un ordine simbolico che l’ha affrancato dall’ “oggetto”, indirizzandolo alla elaborazione del “concetto”. Tuttavia, pure il numero e la tecnica costituiscono, essi stessi, linguaggio e pensiero; linguaggio, perché numero e tecnica derivano, per effetto di speciale stenografia, dalla lingua dell’ordine naturale; pensiero, perché essi sono frutto di una attitudine ipotetica e progettuale propria dell’uomo, il quale è non solo un animale sociale, ma anche un animale culturale, dato che cerca di orientarsi per capire quante e quali sono le risposte culturali possibili. Comunque, da un lato, nell’epoca odierna, le questioni di orientamento sono divenute sempre più spinose, d’altro lato, esse, oggi, si mostrano sempre più diffuse; poiché, mentre, un tempo, interrogativi di carattere culturale circolavano fra poche e limitate élites intellettuali, come Platone, con la Repubblica, o Agostino, con la Civitas Dei, o Vico, con la Scienza Nuova, dal sec. XIX, siffatti interrogativi hanno attinto una dimensione universale, che coinvolge tutti e ciascuno.
Pertanto, in considerazione di ciò, appare indispensabile parlare, leggere, scrivere e praticare la lingua, nelle sue più variegate forme, come esercizio essenziale di libertà e come alimentazione comunicativa per l’intelligenza umana, soprattutto in vista di reagire alla standardizzazione lessicale ed alla riduzione ai minimi termini del patrimonio di pensiero, prodotte dalla nostra civiltà e dalle comunicazioni di massa, dal momento che, così come la ricchezza della parola non serve soltanto a fini ornamentali, esornativi o retorici, analogamente la ricchezza del cervello serve per conoscere, riflettere, comprendere, sollevando a consapevolezza quanto Calvino asseriva; “Chi comanda … non è la voce: è l’orecchio”.
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