Il fatidico sì e la prima notte. Seconda parte: matrimonio e prima notte
| di Orazio RuoccoLe coppie di fidanzati ufficiali, così formatesi, passeggiavano a testa alta per il lungomare con un unico divieto: prima del “viale dei sospiri” che costeggia il campo sportivo, più isolato e perciò quasi riservato alle coppie clandestine, dovevano tornare indietro. Nelle loro passeggiate solitamente erano accompagnate da un terzo incomodo: il fratellino di lei. Il fidanzato lo mandava prima a prendere le sigarette, poi, sempre interessatamente, gli regalava qualche lira perché andasse a comprarsi “i barchettelle”, piccole liquirizie a forma di barchetta che costavano una lira cadauna. Il fratellino a sua volta, più furbo di quello che si pensasse, prolungava l’assenza in proporzione diretta con la generosità del futuro cognato.
I preparativi del matrimonio prevedevano poi una tappa fondamentale: il corredo. La preparazione del corredo per la sposa era una storia che iniziava sin da bambina. Le mamme sin da quando nasceva “a figlia femmena” pensavano a preparare il corredo che poteva essere a sei, a otto, a dieci, e per i più agiati a dodici… Ma di che cosa? Suvvia le lettrici sanno di cosa stiamo parlando.
A qualche settimana dal matrimonio veniva organizzata poi l’esposizione del corredo a beneficio della suocera che con spirito critico lo esaminava in ogni suo dettaglio. Persino le mutande della novella sposa andavano in mostra…
Si arrivava quindi al giorno del matrimonio, fissato solitamente in luglio o agosto, che metteva in fermento un po’ tutto il paese. Anche allora , come oggi, le donne si riversavano in piazza a vedere “a zita” (forse dal greco zeuktòs, ragazza, sposa) per ammirarne l’acconciatura, il vestito e il velo. Gli sposi arrivavano in piazza, sotto una pioggia di confetti e caramelle, non con una macchina d’epoca, ma con la macchina dell’epoca: le “autocosce”, ingenua espressione del tempo che sta per dire “a piedi”. Seguiva poi il ricevimento in casa , con tanto di grammofono e orchestrina che , come il corredo, aveva una sua caratura: 1.500, 1.800, 2.000, 2.500 (è il tetto massimo che ricordo) paste. I dolci nasprati ( i case ruce) prevalevano su tutti, ma non mancavano zuppe inglesi e cannoli di pasta sfoglia, tutti farciti con creme pesanti e di non facile digestione. Camerieri improvvisati (i papà, i fratelli, gli zii degli sposi) si aggiravano solerti in maniche di camicia nelle due o tre stanze che ospitavano gli invitati o negli spazi esterni dove sostavano in piedi i meno fortunati, offrendo con ricchi vassoi, a ripetizione, i dolci. Capitava di doverne mangiare a ufo e a sbafo, nonostante i piccoli sotterfugi messi in atto da più d’uno per evitarne qualcuno, con spiacevoli conseguenze il giorno dopo violente e dolorose diarree!!!! La festa poi non era completa se non veniva allietata dall’esibizione canora di uno dei personaggi più simpatici e pittoreschi del tempo, “zu ‘Ndonio u Sargente” che, come da copione, cantava l’unica canzone che forse sapeva completamente, “La spagnola”, sì, proprio quella che fa. “La spagnola sa amar così, bocca bocca la notte e il dì”.
Al termine delle festa gli sposi che se lo potevano permettere partivano, anche se ad ora tarda, per il viaggio di nozze. Oltre ai necessari bagagli, dovevano portare con loro anche il formale “lasciapassare” per la loro legittima prima notte, da consumare in una stanza d’albergo alla cui reception doveva essere esibito, il certificato di matrimonio rilasciato dal parroco.(Sic!)
Coloro che invece restavano a Marina, e soprattutto i più imbranati, dovevano subire “a spia” notturna dai buontemponi che attraverso la grata della finestra “ru stiero” facevano giungere agli sposini una dolce (si fa per dire) serenata o rasserenanti incoraggiamenti alla consumazione mediante l’emissione simulata di sospiri, gemiti e sussulti. Ma nonostante ciò, avveniva (cara lettrice e caro lettore, ti avverto che ora qui, e a seguire, passiamo dalla più o meno fedele cronaca al mondo dei si dice, dei “pour parler”, insomma del pettegolezzo), avveniva, dicevo, che quella prima notte si risolvesse in un colossale “flop” da addebitare ora alla “cilecca” dell’ansioso maritino, spesso anche lui alla sua prima volta, ora alla “impreparazione” della timida sposina che non agevolava…come dire… “l’ingresso di Carlo III a Madrid”.(La metafora, che non sappiamo quanto storicamente corretta, è di diretta provenienza dell’epoca). Il romantico primo incontro si trasformava quindi inevitabilmente in un forzato e più pratico corso di apprendistato che presumiamo durasse qualche giorno con l’ausilio dell’amico o dell’amica fidati (ma con la bocca aperta e grazie ai quali sono usciti gli spifferi), a cui chiedere le “giuste procedure”…
Gli uomini-sposini che invece vantavano la perfetta riuscita di quella notte dovevano la loro scarna esperienza ad una professionista del sesso, famosa in tutto il golfo, che operava a Sapri e di nome Maria (che Dio l’abbia in gloria per le sapienti e preziose lezioni teorico-pratiche impartite a quegli sprovveduti). Alla sua “cattedra” i giovani più esperti conducevano il loro amico di turno per “l’iniziazione” informandola della circostanza. Ma purtroppo nonostante le attenzioni e le precauzioni dell’operatrice la funzione aveva spesso esito infausto. Accadeva infatti che dopo qualche minuto dall’ingresso nella stanza dell’alcova meretricia, l’iniziando ne uscisse sconsolato accolto dal disappunto dei compagni.
” E ggià e fatte?”.
“Mannaggia, nun saccie chhe m’è succiese!”, rispondeva rammaricato per l’occasione, e per i soldi, perduti.
Ma come tutte le (quasi) regole, anche questa aveva la sua eccezione. La fornirono una coppia di coniugi ormai anziani, dall’atteggiamento un po’ più spregiudicato, almeno nel linguaggio, rispetto allo standard dell’epoca, che raccontavano con disinvoltura la loro prima esperienza. La scenetta con gag è degna del miglior “Made in Sud” o del miglior “Zelig”, e vale la pena riportarla con l’aiuto della vostra fantasia. Chiusi nell’intimità della loro stanza, lo sposino, chissà se e quanto bluffando, richiama l’attenzione della sposina sul “grande inconveniente” cui sta per andare incontro.
“Marì, a fune e longa!”.
E lei di rimando, non sappiamo se con aria di sfida o di rassicurazione.
“Uè, se a fune è longa, u puzze è fute!” .
E anche tutto questo faceva parte della commedia della vita di allora che, storicamente, cambia copione o canovaccio nelle diverse epoche, ma che, come la nostra odierna, assume ora i tratti della farsa, ora quelli della tragedia. Questi ultimi , che sicuramente non sono mancati nella vita quotidiana di allora e che sicuramente sono stati vissuti con grande dignità dai nostri avi, sono stati sempre volontariamente omessi nei nostri racconti perché preferiamo narrare la loro ingenuità, la loro bonomia, le loro stravaganze, i loro valori, insomma tutto quanto fa la loro favola, che poi a ben pensarci … è anche la nostra favola.
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