Iside, il culto della “Madre di Dio” in Campania
| di Redazionedi Giovanni Festa
Iside, Aset, Isi, chi era costei? La sua immagine luminosa attraversa i secoli e le regioni del globo, migrando da oriente a occidente, sempre mantenendo inalterato il suo enigma e la sua bellezza sovrana. Iside è “colei che porta sul capo il trono”, la dea madre della fertilità, che in Egitto, vagando fra le vaste dune deserte, ricompose la quattordici parti del corpo del suo sposo, Osiride, ucciso dal fratello Seth, il “tenebroso”. Nel museo archeologico di Torino una piccola statuetta di bronzo la mostra in piedi dietro il marito in trono, in un amoroso gesto di protezione. Per Ermete Trismegisto si trattava della coppia divina che mise fine alla crudeltà selvaggia delle uccisioni reciproche (quella che il filosofo francese Girard chiama l’orda del tutti contro tutti), e fece sì che l’umanità apprendesse l’insegnamento metafisico che permette l’erezione dei culti e dello sguardo rapito verso l’alto: “le cose che stanno in basso, per ordine del demiurgo, sono collegate con quelle che stanno in alto”. I suoi inni sono magnifici cantici alla madre di dio, “sovrana di grazia e di quanto circonda il disco del sole”, “dea dai mille nomi della cui bellezza sono colme le costellazioni”. Dall’Egitto tolemaico nel III secolo il culto migra nella Grecia ellenistica, e, da lì, giunge a Roma. Domiziano, ultimo imperatore Flavio, fa erigere un templio in onore della dea a Benevento; a Pompei esiste un iseo, perfettamente conservato che, ancora ricoperto di selva, venne ritratto nel 1788 da Francesco Piranesi, figlio di Giovan Battista, il grande artista visionario autore de Le Carceri oscure, che si misurò con Pompei e l’eredità classica nel ciclo di incisioni Antiquitès de la Grande Grèce. Insieme, padre e figlio, visitarono la cittadina vesuviana nel 1770.
L’immagine della dea è assai peculiare: sul capo splende il geroglifico con il suo nome, con un fiore di loto e il disco decorato da raggi solari; il corpo è avvolto da un chitone e da un mantello chiuso con un nodo sul petto; la mano destra sollevata stringe un sistro, strumento musicale in metallo con forma di ferro di cavallo con assi al suo interno: il suono, peculiare, si produce scuotendo l’oggetto per il manico, come descritto da Lovecraft nel racconto commissionatogli da Houdini, Sotto le Piramidi (frutto di un’esperienza che era “realmente” accaduta al grande illusionista e artista della fuga durante un viaggio in Egitto), mentre la mano sinistra, abbassata, regge un vaso che contiene liquidi rituali. La veste è di colore scuro, insieme colore del lutto e allusione alle acque fangose del Nilo. Secondo un’altra iconografia, assai vicina alla Maria cristiana, allatta il figlio Horus-Arpocrate, che ebbe dallo sposo morto. La figura della dea ritorna nella pittura parietale di paesaggio romana, vero e proprio prodromo di future esperienza en plain air, dove si vede il suo tempio in uno scenario boscoso con i sacerdoti, piccole figure colonnari impegnate in una cerimonia (a Benevento) o in un isolotto con il tempio e il sarcofago di Osiride (a Pompei).
Ed è proprio a Pompei, che è possibile inoltrarsi nel suo tempietto, scoperto nel 1764 vicino a un altro piccolo tempio, quello di Esculapio, e al famoso foro triangolare; fu ricostruito dopo il terremoto da Numedio Popidio Celsino, un liberto, nel 62 d.C, diciassette anni prima che la grande eruzione del vulcano lo ricoprisse di cenere e lapilli. Superato il portico rettangolare con colonne di stile tuscanico decorate con pitture del IV stile (caratterizzato da illusionismo prospettico e vedute di paesaggio), si accede nel tempio vero e proprio, che sorge su un podio di laterizio. La cella al suo interno possiede un banco cavo, con in basso un’apertura per i testi sacri e, sul retro, una nicchia coronata di alloro con due grandi orecchie: la dea, diceva Aristide, ascoltava i suoi fedeli. La sala più emblematica è l’ekklesasterion, riservata probabilmente ai banchetti o ai rituali, che ospita la grande statua della dea ed è decorata con squisite scenette all’egiziana. Una di esse mostra l’arrivo di Io a Canopo accolta da Iside: le due magnifiche giovani si accarezzano le mani, la prima comodamente seduta sulle spalle di un tritone che le fa da seggio, la seconda accompagnata da una sacerdotessa e un sacerdote vestiti di bianco che suonano il sistro festanti, con un amorino e un serpente.
Ma il filo rosso isiaco, a Pompei, non termina qui: nel giardino della “Casa delle Amazzoni” ci sono Iside, Anubi, Osiride e Arpocrate; nella “Casa degli amorini dorati” testimonianze del culto si trovano accanto al larario. La dea era anche patrona dei marinai: il cinque marzo, giorno dell’apertura della stagione della navigazione, si celebrava la festa della Nave di Iside, dove un corteo mascherato precedeva donne vestite di bianco con uno specchio dietro la schiena, a mostrare alla dea che anche i pensieri segreti erano rivolti a lei; seguivano paggi con fiaccole, flautisti, un corteo di adolescenti, araldi e, finalmente, gli iniziati, i sacerdoti con gli arredi sacri e le effigi degli dei. La Nave aspettava sulle rive del mare, decorata con figure egizie e profumata con spezie aromatiche.
L’ombra degli antichi dei egiziani si estendeva dalla costa fin nel cuore di Napoli, fra San Biagio dei Librai e via dei Tribunali, dove incontriamo via Nilo (antico vicus alexandrinus) e piazzetta Nilo, dove sorge una statua romana del dio fluviale. Anticamente, lungo questa strada, si trovava una piccola comunità di mercanti egiziani di Alessandria che fece erigere la statua del dio sdraiato secondo il topos della posa melancolico-riflessiva studiata da Aby Warburg, con il corno dell’abbondanza e una testa di coccodrillo ai suoi piedi, simbolo dell’Egitto, e una sfinge; gli infanti attaccati al petto della figura rappresentano le sue diramazioni. Una sala del Museo Archeologico è dedicata proprio ai reperti egizi e ispirò pittori come Paolo Vetri che nel 1874 dipinse un quadro dal titolo Mummie, con sarcofagi e stele funerarie, il particolare della vetrina con il grande coccodrillo imbalsamato e due visitatrici nero vestite, una delle quali fissa enigmatica lo spettatore, come sarebbe piaciuto a Leon Battista Alberti.
È il poeta romano Apuleio a raccontarci nel suo romanzo L’asino d’oro, una vera e propria cerimonia d’iniziazione al culto della dea egizia. Il protagonista di quello che è considerato il primo romanzo picaresco della storia, Lucio, dopo alcuni giorni di digiuno, indossata una tunica di lino grezzo, entra nel sacrario del tempio. Se nella prima parte della cerimonia, segreta, il giovane giunge “ai confini della morte” e adora gli dei “da vicino”, nella seconda, pubblica, Lucio esce finalmente all’aperto. Agghindato con una veste preziosa decorata con animali egizi, stringendo una fiaccola accesa, e con una corona di foglie di palma di capo, l’iniziato è l’attrazione di tutto il popolo, bello come una statua, rinato dopo il faccia a faccia con la dea.
Mozart nel Flauto magico descrive anch’egli una cerimonia isiaca dopo il viaggio in Campania nel 1770: si racconta che il grande musicista fosse passato nella cosiddetta cripta napoletana, sotto il monte Posillipo, per andare da Pozzuoli a Napoli (itinerario descritto anche da Seneca nella lettere a Lucilio) dove, miticamente e ritualmente, come i greci dionisiaci di Nietzsche affacciati sul pozzo dell’orrore supremo, il viaggiatore, immerso nell’oscurità e nella polvere, al chiarore delle fiaccole, “non vede attraverso le tenebre ma può osservare la tenebra stessa”. Una delle scene del Flauto magico (che divenne un film scritto e diretto da Ingmar Bergman), era originariamente simile a un quadro di Ercolano che Mozart dovette presumibilmente vedere nella reggia di Portici: si vede un sacerdote sulle scale del tempio incorniciato da sfingi che stringe una brocca di acqua del Nilo, mentre sotto di lui si assiepano i fedeli e, nel boschetto sacro, gli ibis mostrano il loro piumaggio sontuoso.
Misteri egizi sono narrati anche da Gautier ne Una notte con Cleopatra; Il velo d’Iside è un film del 1913 diretto da Nino Oxilia, il poeta, cineasta e regista teatrale vicino ai crepuscolari e ai futuristi, morto per lo scoppio di una granata durante la Grande Guerra. Eduard Schurè, che si credeva “iniziato ai sublimi misteri”, nel suo romanzo La sacerdotessa d’Iside, descrive così Hedonia-Enodia, la giovane sacerdotessa dell’antica dea, capace di fissarti con i suoi grandi occhi neri “impenetrabili e fissi come quelli delle belve nel deserto, specchi impassibili la cui inquieta profondità riflette con calma uguale i cieli infiammati e le trombe di sabbia ardente” e che, in un momento del libro, ritta sul promontorio e china sull’abisso, dopo aver sciolto, ebbra, i capelli, le braccia e i seni nudi, accoglie il furore divorante della tempesta scatenata. Ella, ipostasi della dea, fiuta il vento e la schiuma salsa, sorvola con lo sguardo lo spazio deserto e tutto il mare e, in balia degli elementi, bacia l’uragano confondendosi, alla fine, come in una sovraimpressione, con il grande poema della natura rivelata.
©Riproduzione riservata