L’Ungheria del Cinquecento: cavalieri erranti, studi ‘eretici’ in Italia, petrarchismo alla corte transilvana
| di Antonella CasaburiNel 1526 l’esercito magiaro viene sconfitto a Mohács: smembrato il regno, l’autorità politica si disperde. L’Ungheria, in ginocchio dinanzi al Turco, è frantumata in tre pezzi quando dai vicini confini delle terre dove predica Lutero entra la prima ventata di Protestantesimo. E mentre il nemico avanza e si accampa in terra magiara, le dispute tra cattolici e riformatori si fanno feroci e cruente: accecata dai contrasti religiosi, l’Ungheria vede arrossarsi di sangue le piazze e i sagrati, mentre sui confini si ammucchiano i cadaveri, sotto il Turco che li miete. I colti rapsodi ungheresi fuggono dai confini in guerra, bussano alle porte di castelli, villaggi e osterie: fini intellettuali dalle spiccate qualità musicali, i cavalieri erranti cantano canzoni di gesta e vicende nazionali, passate e presenti. Sono cantori e messaggeri: col loro canto portano le ultime, sanguinose notizie dal fronte. Così fa nelle sue canzoni, in rima e in lasse, il più noto fra tutti i bardi, Sebastiano Tinódi, che nella sua “Cronaca” intrisa di fierezza nazionale racconta le più cruente battaglie contro i turchi, in versi di fiera bellezza e di precisa e veritiera aderenza storica. Le note nazionali rafforzano le speranze e confortano gli animi: accompagnati dal liuto, che tanto caro era stato a re Mattia Corvino, gli autori di széphistóriák, le “belle storie”, esaltano gli eroi magiari e spesso attingono i loro soggetti da fonti letterarie italiane.
Il complesso e intrinseco influsso letterario italiano non si ferma dinanzi all’avanzata turca, né dinanzi alla Riforma. Le novelle boccaccesche, il “Decamerone” e la “Commedia” dantesca sono amati da molti giovani ungheresi che, senza troppo riguardo alle vicende religiose interne, scelgono di formarsi nelle Università italiane, prima fra tutte Padova. Diverranno intellettuali che della letteratura italiana opereranno rifacimenti in versi magiari e in latino. Nonostante l’ordine dell’arcivescovo primate Antonio Verancsics di abbandonare l’Università patavina “infetta dall’eresia”, i giovani ungheresi, protestanti e futuri protestanti, studiano a Padova! Fra loro vi sono i più acuti eruditi del Cinquecento magiaro: Mihály Sztárai, traduttore e compositore dei primi salmi ungheresi; Péter Bornemisza, famoso predicatore, traduttore su base italiana dell’Elettra di Sofocle, e precettore del più grande intellettuale magiaro del secolo: Bálint Balassi; l’umanista Andrea Dudith Sbardellati, nobile diplomatico italo – ungherese, prima vescovo cattolico e poi riformatore protestante; János Zsámboki, latinizzato come Johannes Sambucus, filologo ed editore dei testi classici e delle opere dell’Umanesimo magiaro.
Dopo l’occupazione turca di Buda, nella seconda metà del Cinquecento la corte dei Principi della Transilvania, a Gyulafehérvár, diviene importante centro di irradiazione della cultura italiana. È qui che si trasferisce con la sua corte la regina Isabella, vedova del re Zápolya: una regina che, figlia del re di Polonia Sigismondo e di Bona Sforza, aveva ricevuto un’educazione interamente italiana. Al suo seguito, la corte “all’italiana” da Buda si sposta in Transilvania, e il figlio della regina Isabella, János Zsigmond, primo principe della Transilvania, riconosciuto re d’Ungheria sia dagli Asburgo che dall’Impero Turco, s’impadronisce della lingua e della cultura italiana al punto da scegliere, tra intellettuali, medici di corte e guardie del corpo, esclusivamente italiani. La presenza italiana in Transilvania resta immutata anche sotto i principi Báthory, che seguitano a inviare sudditi, solidali e parenti all’Università di Padova. Non stupisce che il fascino delle corti italianeggianti dei principi ungheresi della Transilvania abbia contribuito alla formazione “all’italiana” del primo vero poeta nazionale ungherese: Bálint Balassi, figura importante del petrarchismo europeo.
Autore tra i più studiati dell’italianistica ungherese e della magiaristica italiana, Bálint Balassi (Balassa) dà inizio alla poesia d’arte in volgare. Da Dante a Petrarca, il suo linguaggio poetico, originale ed autoctono, utilizza gli elementi e i motivi poetici della tradizione classicheggiante e trovadorica, del petrarchismo e della poesia dei popoli vicini: polacca, turca, tedesca, ma anche slovena e rumena. Balassi è il nobile rampollo di una della maggiori famiglie feudatarie ungherese e vanta un’educazione di livello europeo grazie al migliore tra i precettori: Péter Bornemisza, celebre predicatore luterano e traduttore, su base italiana, dell’ “Elettra” di Sofocle. Quando il padre cade in disgrazia a causa delle guerre di religione, inaspettatamente si apre per Balassi una vita turbinosa di avventure. Il suo tumultuoso destino è pieno di contrastati amori e di impetuose guerre; frequenta, come ufficiale del re d’Ungheria, la corte transilvana di Gyulafehérvár; scrive poesie d’amore, religiose e cavalleresche; combatte per le sue donne; e per la sua fede muore, poeta in armi, difendendo le mura di Esztergom. Nella sua breve, impetuosa vita, Balassi riesce nell’intento, dichiarato nel prologo alla sua “Bella Commedia”, di “arricchire la lingua ungherese”, trapiantando “nuove forme” nella poesia magiara: l’ arsenale linguistico, poetico e metrico balassiano è difatti il fondamento della poesia ungherese. Primo grande poeta ungherese, Balassi morì, come secoli dopo il poeta nazionale Sándor Petöfi, con le armi in pugno contro il nemico; morì per la sua gente, per la sua fede, per la sua Patria.
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