L’emorragia infinita del Cilento

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L’emorragia infinita del Cilento

La maggior parte delle nuove generazioni non conosce, o forse ha preferito dimenticare, lo sradicamento massiccio e cinico che ha lacerato, nel primo secolo dell’Unità d’Italia Camerota, e, nello specifico, i nostri piccoli borghi e le nostre comunità del Cilento. L’emigrazione non era mai un viaggio di piacere. Si partiva spesso con un miraggio, ma senza una reale prospettiva. Non si sapeva se, e quando, si sarebbe tornati, né se il sogno “mericano” sarebbe mai diventato realtà.

Un’emigrazione di lunga gittata, dunque, e per ciò solo, dura, durissima. Storie di sofferenza rimaste anonime, nell’ombra, dileguatesi nel vortice trituratore dello scorrere incessante del tempo, quel tempo che tutto distrugge, tutto annienta. Restano le lettere e le foto degli emigranti a testimoniare i sentimenti più disparati, tutti declinati sull’unica nota del dolore: il senso di smarrimento, di abbandono, di lacerazione familiare, di dura fatica. E poi la nostalgia, che i nostri emigranti in Brasile preferivano esprimere col termine portoghese di “saudade”, ritenendolo più appropriato, più intimo, più incisivo e penetrante nella rappresentazione genuina di un stato d’animo unico, nuovo, mai sperimentato prima nel corso della vita.

La nostalgia, che l’etimo greco ci rende mirabilmente nel significato di “dolore del ritorno”, era il sentimento più diffuso, quello dominante. Un sentimento che si abbeverava del bisogno di sentire ancora il vernacolo di casa, parole e modi di dire che definivano un’identità che non si voleva smarrire, e che, anzi, si era fieri di ostentare.

Nel dialetto Camerotano entrò, quasi con un atto di imperio, un termine, un lemma, mai sentito prima, assolutamente estraneo alla cultura camerotana, senza alcuna storia o tradizione locale: “musiù”. Di più che sospetta e contorta derivazione francese (“monsieur”), musiù non era proprio un complimento. A Caracas venivano chiamati musiù, che nello spagnolo parlato in Venezuela significa “straniero”, gli emigranti di razza bianca, originari di paesi non ispanici. Un’ingenua, blanda, non si sa quanto effettivamente emarginante, discriminazione verbale a carico dei nostri emigranti.

Ma un secolo di emigrazione ha creato un profondo legame con quel paese. Nella frazione Marina, quella maggiormente tributaria del flusso migratorio, sono più che evidenti ed eloquenti i segni di questo rapporto socio-culturale-affettivo. A Marina esistono due monumenti: uno, che non manca mai, quello ai propri caduti, fatto edificare però proprio dai primi “musiù” emigrati a Caracas, per ricordare i fratelli meno fortunati; e l’altro a Simon Bolìvar, El Libertador de Venezuela. Vi è un solo cinematografo, ed è intitolato a Bolìvar. Ma a donare nuova linfa vitale al cordone ombelicale che, storicamente, teneva in simbiosi i due paesi, fu un ultimo tributo di riconoscenza che la frazione Marina volle dedicare al paese Sudamericano.

Il Consiglio Comunale, il 29 Maggio 1956, su specifica richiesta dei cittadini di Marina, intitolò la via principale della frazione a Simon Bolivar. Chiara e ben precisa la motivazione:” In segno di riconoscenza a quella terra lontana, il Venezuela, dove tanti figli Marinari avevano trovato fortuna”.
Ma quella fortuna, i Camerotani, volevano goderla al loro paese natìo, perché, partendo, un giorno
” … il cuore no, non l’ho portato,
nella valigia non c’è entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuole venire.
Lui resta fedele, come un cane,
nella terra che non mi dà pane.|
(da “Il treno degli emigranti” di Gianni
Rodari.)

Un’emigrazione infinita dunque, che, oggi, pare non contempli più nemmeno un ritorno nel Cilento che, negli ultimi sessant’anni, ha perduto definitivamente oltre cinquantamila unità della propria popolazione. La nostalgia della nostra terra non sembra più un sentimento che appartenga alle nuove generazioni. Non è una questione di “appeal” smarrito dei nostri paesi, il cui fascino non è in dicussione. Ma il nuovo “urbanesimo” esercita una forza di attrazione verso le città che annienta qualsiasi sentimento o proposito del ritorno. Questo perché l”80% della ricchezza mondiale viene prodotta nelle città.
La nuova urbanizzazione è, ormai di fatto, uno dei nuovi “megatrend” del ventunesimo secolo.

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