«La storia di mio nonno, Nicola Salamone, sopravvissuto all’orrore dei Lager nazisti»
| di Marianna ValloneIn un cassetto chiuso per troppo tempo una storia mai dimenticata, un dolore di famiglia incastonato nella grande tragedia dell’Olocausto. Letizia Salomone, nipote di un deportato italiano, ha deciso di spezzare quel silenzio, scavando nelle radici della sua famiglia per restituire dignità e memoria al nonno, il carabiniere Nicola Salamone, classe 1920, di Caselle in Pittari. Attraverso archivi storici, testimonianze e il coraggio di affrontare l’indicibile, Letizia racconta il viaggio di un uomo che divenne un numero tra migliaia, ma che oggi torna a essere un volto, una voce, un simbolo. In occasione della Giornata della Memoria, la sua testimonianza é un monito urgente affinché nessuno dimentichi. Di recente Letizia é stata scelta da Mediaset per il progetto “Viva la memoria”.
Qual è stato il punto di partenza di questa ricerca, la spinta che ti ha portato a scavare nelle radici della storia di tuo nonno?
La storia di mio nonno rimane chiusa in un cassetto per lungo tempo finché non sono io a percepire il bisogno di aprirlo per spezzare il peso di quel silenzio divenuto ormai asfissiante.
Sono cresciuta nell’immobilità di domande che non trovano risposte, nelle ipotesi fatte per darsi spiegazioni che, in qualche modo, possano riuscire a calmare un animo dolente.
Finché qualcosa cambia.
E cambia per sete di conoscenza. Cambia perché le domande che mi assillano diventano insopportabili e l’unico modo che sento come giusto è partire dall’unica parola che conosco con certezza: Hannover.
Credo che, per affrontare ogni strada impervia, ci sia bisogno di quella spinta che si avverte decisa, dentro, e che muove ogni tuo passo. Probabilmente, nell’esatto momento in cui concludevo l’ultima pagina del libro “ La memoria rende liberi”, ero pronta a farlo. Anche se, pronti, non significa conoscere esattamente dove quella strada potrà condurci, ed io, non immaginavo di attraversare tutto quel dolore che, giorno dopo giorno, ha invaso la mia vita.
Chi era tuo nonno?
Mio nonno, Salamone Nicola, era un uomo perbene. Un uomo onesto, garbato, un uomo amato, rispettato e ricordato con il sorriso sulle labbra e la commozione negli occhi.
Era un uomo gentile, di quella gentilezza che oggi fatichiamo ad incontrare; sempre lì pronto a tendere una mano per chiunque ne avesse bisogno.
Era un uomo, la cui compagnia, donava piacere.
Aveva sposato mia nonna Letizia e avuto due figli: mio padre, Michele, e mia zia, Olga.
E, amava le rose.
Cosa è successo?
Succede che, dopo l’Armistizio dell’8 settembre ’43, i tedeschi disarmarono e catturarono i soldati italiani; li caricarono su vagoni piombati e, li deportarono nei campi di destinazione tra Polonia, Germania ed Austria.
Mio nonno invece, venne catturato un mese dopo perché si trovava a Roma. Era Carabiniere.
Il 7 Ottobre ’43 viene ancora oggi ricordato come il giorno in cui, a Roma, vennero catturati più di 2000 carabinieri. Furono arrestati dai tedeschi e costretti a cedere le armi, dopodiché, così come accaduto a tutti gli altri militari prima di loro, caricati su treni piombati e deportati nei campi di concentramento.
La sua triste storia parte da qui. Ed oggi, sono in grado di poterla raccontare grazie all’aiuto dei tanti archivi che mi hanno fatto avere documenti storici relativi alla sua vita in quel periodo e, grazie al racconto di un suo amico, Giovanni Greco, al quale nonno aveva raccontato la sua storia. Unico testimone Lui di un passato difficile da raccontare.
Il racconto che gli fece è dettagliato e difficile da raccontare per l’enorme tragedia che lo colma, ma è necessario farlo.
Come detto, venne catturato il 7 ottobre 1943, quando i Tedeschi arrivarono in caserma dopo averla accerchiata. Fatti uscire tutti, li disarmarono e, senza dare nessuna spiegazione li portarono via.
Vennero caricati su treni piombati, e lì, stretti uno all’altro, con a terra del pagliericcio e una sola piccola apertura per guardare all’esterno, attraversarono il paese spaventati e indifesi.
Si fermarono in qualche stazione e, durante le soste, qualcuno dalla banchina, cercò di passare loro qualcosa da mangiare, ma invano; i tedeschi erano lì a bloccare ogni forma di aiuto.
Attraversarono il Brennero, e giunsero così a destinazione.
Erano in Germania, probabilmente nel campo di concentramento di Moosburg.
Scesi dal convoglio, si ritrovarono di fronte molte baracche recintate da rete metallica alta e controllata dalle SS. E fu in quel campo che, lasciò il suo nome per diventare un numero: 54240.
Per quanto tempo rimase lì non mi è dato saperlo ma, con ogni probabilità, il tempo fu breve perché i racconti parlano di un solo campo: quello di Hannover.
E’ di Hannover che raccontò lungamente. E’ in quel campo che si sforzò di sopravvivere. E’ in quel campo che subì l’orrore raccontato da chiunque visse sulla propria pelle il male assoluto generato da una mente folle. Hannover era un sottocampo di Neuengamme, situato nel nord della Germania.
Nonno lavorava in una fabbrica di gomme. Sottoterra. Questo perché il campo di Stöcken prima e quello di Ahlem (sotterraneo) poi, si occupavano della produzione di pneumatici per la Continental.
Per far capire cosa avesse vissuto per lunghi mesi, usò queste parole: “Non vedevo mai né luna né sole”, questo perché passava le sue ore di lavoro sottoterra, al buio, a sformare pneumatici, per poi rientrare nella baracca, dalla quale, anche lì, non riusciva a vedere che un piccolo spicchio di cielo.
Veniva picchiato, frustato, umiliato. Mangiava il più delle volte una brodaglia con avanzi di patate. Ed aveva con se qualcosa per pregare. Un ricordo che lo teneva vicino ai suoi affetti così lontani. Era un libricino di preghiere, ritrovato anni dopo, con all’interno ancora la sua piastrina militare, che custodisco oggi tra le mani, e che mi provoca immenso dolore.
Come è riuscito a salvarsi?
Uno dei documenti più importanti ricevuto da un archivio tedesco racconta gli ultimi dieci giorni di mio nonno. E’ una lista di persone, quasi tutte italiane sembrerebbe, ammalate ed iscritte in unElenco dell’assicurazione sanitaria Adrema di Hannover.
Questo dettaglio salvò lui come tutti gli altri perché, il racconto di nonno combacia perfettamente con altre testimonianze storiche: quando le SS sepperò dell’avanzata delle truppe americane, abbandonarono il campo portando con loro una parte di prigionieri e lasciando lì tutti quelli malati o in fin di vita.
Il 10 aprile ’45, gli americani entravano ad Ahlem, salvando la vita di circa duecento prigionieri, uno dei quali, nonno. Quando dico che si salvarono per un dettaglio, per un caso, lo dico perché tutti gli altri prigionieri, circa seicento, adatti a marciare, furono costretti a lasciare il campo e a camminare verso Bergen-Belsen nelle ormai famose Marce della morte. Non si sa di quelle seicento vite, quante ne arrivarono a destinazione perché gran parte di loro, crollò ed altre persero la vita per mano delle SS.
Nonno si salvò perché malato e non ritenuto idoneo a quella marcia.
Durante la tua ricerca , hai scoperto altre storie simili a quella di tuo nonno?
Si, con mio stupore ne ho scoperte altre.
Continuando a ricercare documenti che potessero raccontare la storia di nonno, mi sono imbattuta su ebay, in cartoline postali inviate, a Caselle, da due prigionieri nei Lager tedeschi. Così contatto il venditore chiedendo se una delle due avesse il nome di nonno. Ero a conoscenza soltanto di altri due nomi di deportati come lui, ed ero convinta che, almeno in una, potesse esserci il suo nome. Mi sbagliavo, ma decido comunque di comprare quelle due cartoline: non potevo lasciarle lì. Le avrei riconsegnate alle rispettive famiglie.
Al loro arrivo, prenderle in mano è stato un colpo così emozionante da non essere paragonato ad altre situazioni emozionanti vissute in passato. La commozione mi ha avvolta e soltanto dopo ho capito che quei nomi si aggiungevano ai tre che conoscevo. Da lì, ho iniziato a ricercare negli archivi già conosciuti per la ricerca fatta su nonno e, con maggiore sorpresa sono arrivata a scoprire un elenco fatto di 21 militari Casellesi deportati nei campi di concentramento, uno dei quali ucciso, dopo soli otto giorni dal suo arrivo, nello Stalag IV B (Falkenberg), per Ribellione al lavoro (archivio Wast). Il suo nome era Riziero Forte, fratello di una mia zia.
Credi che queste vicende siano ancora poco conosciute?
Assolutamente si! Mi è capitato spesso di chiedere se si conosce la storia degli IMI Internati Militari Italiani, ma la risposta è quasi sempre la stessa: no. Nemmeno io ne ero a conoscenza finché non ho iniziato questa ricerca. Ancora oggi se ne parla poco e, tutto ciò che è stato fatto lo si deve sicuramente alla forza della voce di figli e nipoti di deportati IMI che, hanno incessantemente chiesto di raccontare e preteso che le loro storie venissero divulgate.
Stiamo parlando di oltre seicentomila militari italiani deportati nei Lager nazisti dopo l’8 settembre 1943. Stiamo parlando di uomini che si rifiutarono di continuare a combattere per il nazifascismo, e l’RSI, scegliendo dunque la prigionia nei campi alla libertà e per questo, oggi, la loro resistenza viene ricordata come Resistenza senz’armi.
Quanto è importante, secondo te, ricordare e raccontare queste storie per le nuove generazioni?
Credo sia necessario farlo. Un dovere da parte di tutti noi. Non solo mio nei confronti di mio nonno, ma di ogni singolo individuo. Tutti dovrebbero ricordare e raccontare. Lo dobbiamo ad ogni Uomo, Donna, Bambino passato in quell’inferno. Lo dobbiamo a chi rientrò e per anni non riuscì a raccontare. Lo dobbiamo a chi lasciò lì la vita.
L’orrore commesso in quei Lager non può essere relegato a poche pagine di storia. Non può essere ricordato soltanto pochi giorni durante il corso dell’anno. Dovremmo portarlo dentro sempre e far sì che faccia da luce sul nostro cammino di vita.
Quali rischi corriamo se non lo facciamo?
Sappiamo bene tutti qual è il rischio. La risposta è lì, sotto i nostri occhi.
Hai deciso di non tenere per te questa storia, ma di condividerla partecipando ad un progetto di Mediaset. Come hai vissuto questa esperienza? Quanto ti ha cambiato, a livello personale, scoprire tutto questo?
Credo sia giusto raccontare. Necessario farlo. Non è stato semplice partecipare al progetto Mediaset. Non è semplice raccontare senza lasciarsi sopraffare dall’emozione. Le lacrime ti bloccano la voce e rivivere quelle che furono le giornate di nonno in quel campo è tremendamente doloroso. Quando leggi di come venne costruita quella galleria, di quanti prigionieri morirono lì dentro, della mortalità più alta tra tutti i campi di Neuengamme; quando ripeto la frase pronunciata al suo amico Non vedevo mai né luna né sole; quando sotto gli occhi scorrono elenchi infiniti di persone morte per… morte per… morte per… come si fa non lasciarsi toccare? Come si fa a rimanere indifferenti a tanto dolore? Non si può. Non è possibile farlo. Non lo è per me.
Hai in mente di proseguire questa ricerca o di raccontare questa storia in altri modi?
Mi piacerebbe raccontare la sua storia in un libro, ma nell’immediato, farò richiesta della Pietra d’Inciampo per lui. Per far si che il suo ricordo, la sua storia, rimangano visibili a quanti verranno dopo di noi.
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