Giuseppe Ungaretti: turista d’eccezione nel Cilento
| di Emilia Di GregorioBen noto come poeta, un po’ meno come prosatore, Giuseppe Ungaretti, esponente di spicco del movimento ermetico novecentesco, è stato proprio nella nostra terra ed ha descritto con magia e incanto i luoghi del mito virgiliano.
Il tutto nasce dagli appunti presi durante il viaggio e prende vita con il tempo. Dopo la “stagionatura” degli scritti e un “labor limae” durato molti anni viene pubblicato da Mondadori nel 1961 “Il deserto e dopo”, opera che raccoglie articoli scritti tra il 1931 e il 1934 e che racconta i viaggi del poeta tra Egitto, Corsica, Italia e Olanda. La terza parte di queste sue prose di viaggio è intitolata “Mezzogiorno” e comprende alcune pagine di diario che descrivono il Cilento unendo con maestria la prosa d’arte e l’invenzione metaforica. Il poeta del dolore della guerra ci regala un suggestivo e sintetico ritratto di luoghi e paesaggi a noi cilentani ben noti e molto cari.
La tecnica verbale ungarettiana si fonde in perfetta sintesi con la tecnica pittorica, sembra quasi di trovarsi davanti ad un grande affresco. Sono scarse le presenze umane citate, l’uomo lascia il posto alle immagini di una forte e vitale natura raccontata con i colori di una tavolozza ricca di poeticità.
Nel primo racconto, “Elea e la Primavera”, datato 12 aprile 1932, ad attirare subito l’attenzione del poeta friulano sono le bufale “che s’avvoltano nel sudicio per non sentire le mosche” e che, “brave bestie del resto”, ci regalano “quelle squisite mozzarelle, un vanto – e perché no? – di questa regione”. Tra le righe che parlano di “quell’alta rupe” riconosciamo la Punta di Agropoli che “come un canguro, sulla sua pancia, nascondendola al mare, porta la sua città” e la piana di Paestum “che i monti serpeggiando limitano sul Golfo”. Nella conca del Testene gli viene incontro la festosa primavera impegnata a “tappezzare così tutto a speranza”ed è arrivato il momento di giungere a Punta Licosa quando “la costiera taglia il monte […] e interrompe un avviarsi di magri pini […] tentennati dal vento” e poi c’è la Valle dell’Alento dove “gli ulivi si radunano, le creste salgono sino al Monte Stella”. Quando Ungaretti giunge ad Elea, “città di fuggiaschi, dove anche il mondo aveva finito col divenire un’assenza”, sale in cima e si sofferma nella meditazione non mancando di menzionare gli antichi filosofi che la abitarono, come Senofane e Parmenide. È l’assenza che in questo posto diventa un vero e proprio strumento generatore di memoria per il poeta dell’essenzialità.
Il secondo articolo, 5 maggio 1932, è intitolato “La pesca miracolosa” e chiarisce subito il concetto di viaggio come metafora della ricerca per la quale il “vedere” fa un passo avanti rispetto al descrivere. A tal proposito Ungaretti invoca “una buona vista” che sia ad assisterlo durante il suo cammino “in luoghi che Virgilio ha visitato”. Tornando indietro, a Pioppi noleggiano “una paranza a motore in secco” e “il proprietario, signor Pinto” conferma il carattere ma soprattutto “la cordialità della gente di queste parti” che per il poeta rappresentano “ormai civiltà assai rara”. È così che il Cilento viene definito una “terra ospitale, terra d’asilo!”.
“Quando Velia scompare” è la volta di Pisciotta e “ad arginare il mare” ci sono “rocce rugginose”, “subito dopo […] un monte mosso da una strada come da una saetta” con una “violenza” percepita da Ungaretti solo “in due dipinti del Caravaggio”. E ritorna l’occhio attento per i particolari, “ulivi, sempre ulivi!” che “spariscono come pecore a frotte” con “un alone di luce intorno alle foglie, come i santi”. Andando in avanti “appare, penetrato nel mare, Palinuro, come uno squalo smisurato, cariato d’oro” e “fra la folla dei monti […] comanda il monte Bulgheria […] un pezzo d’antracite che sprigioni un briciolo di cenere greve”. Trovano luogo in queste pagine anche le apparizioni fantasmatiche presso le piccole grotte lungo la costa, parliamo di quello che viene descritto come “un rumore d’antiche ossa” generato da “i cavalloni” che “penetrando in quegli occhi bui, disturbano le pietre”. Ungaretti con i suoi amici visita la Grotta Azzurra dove l’acqua “sembra una buccia di celluloide turchina” , dopodiché, assiste al ritorno dei pescatori e ascolta i loro racconti circa una pesca miracolosa. Si tratta della testa di Apollo “alzata in palmo d’una mano rugosa” e vista al Museo di Salerno dal poeta che osserva: “ha nel suo sorriso […] non so quale canto di giovinezza resuscitata”. Si conferma in questo articolo il binomio sogno – memoria con l’evocazione del mito virgiliano di Palinuro, simbolica figura della fedeltà alla vita che contrasta l’avanzata Sonno – Morte.
La terza parte, 14 maggio 1932, riguarda “La rosa di Pesto” dove il treno con “il suo grido e il suo fumo” sembra proprio un elemento “estraneo” nella piana dei templi dove la palude che ora non c’è più ha conservato quei straordinari monumenti. Il canto di “uccelli atri”, delle cornacchie che “in una confusione di strilli, spariscono” ha la stessa metrica del tempio di Poseidone. Qui “l’uomo raggiunge l’ultimo limite dell’idea del suo nulla” rispetto all’arte che con la sua maestà e la sua grandezza lo annienta. Tornano anche qui nomi illustri: è la volta di Pitagora con la “vera idea della perfezione ch’è l’esistenza identica all’essenza”. Un campo di fave che per noi sembrerebbe del tutto normale nella struttura paesaggistica della nostra terra fa riflettere il viaggiatore e i suoi compagni che gli “raccontano di Pitagora che rimase ucciso presso Girgenti […] non avendo osato, per scrupolo religioso, attraversare un campo di fave”. Anche questo aneddoto richiama alla mente del poeta concetti filosofici, infatti “questo gustoso legume” era per i Pitagorici simbolo del “sogno che sempre, modo inconscio della memoria, è il modo impuro […] del pensare”. L’ultima parte di questo articolo spiega anche il titolo dello stesso, infatti Ungaretti scrive: “Questa piana rivedrà presto tornare le sue rose celebrate; ma il cielo ha qualche rosa, ora, e stasera la loro brevità è fulminea”. Le rose di Paestum in questione erano molto amate dalle matrone romane, Virgilio e Properzio ne hanno declamato lo splendore e il turista Ungaretti fa altrettanto accennando al loro rifiorire.
Ungaretti prosegue il suo viaggio nell’hinterland napoletano, visitando Pompei, Ercolano, il Vesuvio e Napoli.
Leggere ciò che vediamo ogni giorno tra le righe di un poeta di tale calibro non può che renderci orgogliosi. Questi racconti di viaggio sono quasi sconosciuti quanto la stessa attività giornalistica di Ungaretti ma l’essenza del messaggio che vogliono trasmettere non passa così inosservato. Sembra quasi che il poeta – turista parli di una terra che ha appena cominciato a vivere, mostrandone il “segreto” più profondo con il paesaggio che si manifesta come sentimento. È la forza della prosa di un maestro del ‘900 italiano che dipinge la nostra terra con eleganza, è la terra in cui viviamo che diventa una sorta di “terra promessa”, è il Cilento che vive nella poesia che s’illuminò d’immenso.
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