L’uomo nell’età della tecnica
| di Redazionedi Antonio Calicchio
La questione della tecnica rappresenta la “questione” – per molti versi – del pensiero occidentale. Non si pensi che, soltanto dopo la rivoluzione industriale, il pensiero occidentale si sia messo a riflettere criticamente sulla tecnica, sulla tecnologia, sulle sue enormi potenzialità, sui suoi altrettanto enormi pericoli ed eventuali limiti. Ad es., nel primo stasimo di quella che è stata definita la tragedia greca più perfetta di tutte, che è Antigone, di Sofocle, il coro comincia così: “Molte sono le cose tremende, terribili, mirabili, ma nessuna è più tremenda, terribile, mirabile dell’uomo”. L’uomo è, per Sofocle, la personificazione e l’incarnazione più alta del deinòn; l’uomo è una figura intermedia tra la possibilità del bene e quella del male. Anche perché egli, diversamente da tutti gli altri viventi (e pure per questo è deinòn), non ha una dotazione naturale, una physis, una natura che lo abiliti a stare al mondo, non ha una attrezzatura che gli consenta di stare al mondo; e, quindi, per stare al mondo, per sopravvivere, deve sopperire ad un deficit naturale, ad un difetto naturale, ricorrendo alla techne, alla tecnica, al dominio tecnico sulla natura. L’uomo non è capace di adattarsi al mondo, dunque, adatta il mondo a se stesso. Questo è il deinòn umano e in tale aggettivo, in tale doppiezza si situa la grande questione della tecnica: essere la tecnica non qualcosa di strumentale, ma qualcosa di ontologico che attiene al nostro modus essendi.
L’uomo è tecnico per essere: ecco perché è deinòn, non può essere se non attraverso un apparato tecnico, un espediente tecnico che gli consente di stare al mondo, altrimenti al mondo l’uomo non ci sta. Lo stasimo continua perché è evidente che l’uomo ha, nelle sue mani, nella sua techne, una potenza smisurata ed infinita. Ma in questa potenza infinita – recita lo stasimo – si annida la possibilità della dismisura, di sconfinare oltre i propri metra, i propri confini e i propri limiti. Ed anche per questo i Greci, che hanno scritto l’alfabeto della nostra cultura, avevano una parola sola: hybris, che viene da un prefisso hiper-, super-, oltre, oltranza. Pertanto, fin da una tragedia, del 442 a.C., messa in scena, davanti al popolo di Atene, nel teatro di Dioniso, i Greci hanno pensato la questione della tecnica, si sono posti il problema del limite della tecnica e della possibilità che la tecnica sconfini al di là del limite, e, sconfinando al di là del limite, dia vita alla hybris che attira sul trasgressore l’ira degli Dei.
L’uomo è ontologicamente tecnico; noi siamo costituiti non soltanto dal nostro corpo biologico che, oramai, non è più da intendere come un dato irrevocabile, ma da tutte le protesi tecnologiche che noi incorporiamo. Si pensi al cineasta canadese David Cronenberg che, nei suoi film, ha sempre interrogato questo problema: essere, il nostro corpo, aperto non solamente all’ambiente esterno, che è costituito dalla tecnica, ma alle innumerevoli “protesi” che lo costituiscono. E si pensi ad un film come Existenz o come Crash – terribile, distopico – in cui l’uomo è anche costituito dal proprio eros nei confronti di incidenti stradali, per cui ha una pulsione erotica, addirittura, sessuale nei riguardi delle carcasse delle automobili, delle macchine che si accartocciano: estremo esito distopico, quindi, di utopia negativa, del nostro rapporto con la tecnica.
Martin Heidegger scrisse un breve saggio dal titolo La questione della tecnica il quale si apre ponendo una questione: “la tecnica non è neutrale”. Sembra una questione banale, la tecnica non è neutrale. Dietro la pretesa neutralità della tecnica e della scienza si possono dissimulare i disegni più criminali; si possono dissimulare, dietro la presunta, immaginaria, illusoria neutralità della scienza, gli atti politici più determinanti. Non esiste governo più politico di un governo tecnico! E l’università italiana sta subendo la stessa trasformazione che ha investito la scuola italiana ad opera di un organismo tecnico, di un organismo neutro che, dietro la neutralità, sta facendo passare una distruzione sistematica del rapporto tra ricerca, creatività e innovazione. Occorre superare il dualismo tra le culture, tra le scienze dure e le scienze umane. Quello che dovrebbe essere il motore della nostra ricerca, cioè l’osmosi, l’alimentazione reciproca tra i saperi, oggi, è messo al bando, sulla base dell’adozione di formule “tecniche”, di “algoritmi”. E l’algoritmo può creare una dittatura estremamente pericolosa e può trasformare noi in solerti funzionari del sistema, e più zelanti di quanto richieda il sistema stesso. Questa è la trasformazione antropologica che ha colpito la scuola italiana e sta colpendo l’università italiana: chi accetta la tecnica con rassegnazione, prefigura, in fondo, un destino nel quale la tecnica ci tiranneggia.
Dell’autore: Storia ed opinione, le nuove responsabilità tra pensiero e linguaggio
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