Narcotrafficante colombiano estradato in Cilento: codice rosso interpool per cattura
| di Redazionedi Redazione
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Uno dei più feroci signori della guerra colombiana è pronto ad atterrare in Italia. Salvatore Mancuso Gómez, 56 anni, nato e cresciuto in Colombia, dove tra gli anni Novanta e Duemila guidò i paramilitari di destra delle Autodefensas Unidas de Colombia con cui organizzò migliaia di sequestri e massacri, gestendo un enorme giro di narcotraffico internazionale, sarà estradato nei prossimi giorni (o addirittura ore) nel nostro Paese dagli Stati Uniti, dove era in carcere dal 2008. Non andrà in Colombia, come aveva chiesto a gran voce il governo di Bogotá. Che ora si trova a gestire una grossa grana politica e d’immagine. Ma potrebbe aver scelto di essere trasferito a Sapri, città d’origine della sua famiglia.
Un passo indietro
Riavvolgiamo il nastro. Salvatore Mancuso nasce nell’agosto 1964 a Montería, nel dipartimento di Córdoba, figlio di un emigrato italiano di Sapri che ripara elettrodomestici — e da cui eredita il passaporto italiano — e di una bella ragazza locale, Gladys Gómez. Cresce con molti fratelli nelle fincas, dove la vita procede bene finché nell’81 le Farc, le forze armate rivoluzionarie, iniziano a rapire amici e parenti, a chiedere riscatti, a uccidere chi non si piega all’ideologia marxista.
Così Salvatore, che nel frattempo è andato a studiare a Pittsburg e poi a Bogotá, rientra alla base. E con altri contadini fonda il suo esercito clandestino di «autodifesa» dalle guerrillas. Ma per nutrire e armare i suoi uomini ha bisogno di soldi. Stringe amicizia con Fidel Castaño (vecchio amico di Pablo Escobar) che col fratello Carlos controlla un’altra piccola formazione paramilitare. Si mettono a produrre cocaina e a trafficarla, e nel ‘97 si uniscono nelle Autodefensas Unidas de Colombia: in pochi anni reclutano oltre 2 mila persone (poi fino a 20 mila) e arrivano a smerciare polvere bianca per 7 miliardi di dollari l’anno.
Salvatore detto El Mono, «la scimmia» di un metro e novanta, «l’italiano» spietato che guida gli elicotteri e controlla le piantagioni al confine col Venezuela, diventa sempre più potente fino a prendere il controllo delle Auc. Sotto di lui il narcotraffico, da mezzo per finanziare «la difesa» dei terreni, si trasforma nell’unico fine. Per estendere e proteggere le piantagioni, le Auc passano sui cadaveri di chiunque: compiono stupri, sevizie, massacri di interi paesini (come lo sterminio di oltre 60 contadini a El Salado, da cui si racconta che «si salvarono solo i cani»). E secondo diverse organizzazioni umanitarie compiono il lavoro sporco per conto dell’esercito colombiano.
Ma quasi tutto gira intorno alla coca. Che dalla Colombia scorre a fiumi verso l’Europa. Nel 2004 la Dda di Catanzaro, in una maxi inchiesta che coinvolge altri 6 Paesi, intercetta un carico di 5.500 chili diretto a Gioia Tauro, dove l’aspettavano le cosche della ‘Ndrangheta di cui El Mono è il principale tramite. Tra i 159 destinatari dell’arresto c’è anche Mancuso, il vertice della cupola. Il suo nome torna anche nell’operazione Tiburon della Dda di Reggio Calabria, del 2006, sempre per traffico internazionale di stupefacenti.
Ma intanto Mancuso ha preso l’uscita d’emergenza offerta dal presidente Álvaro Uribe: nel 2004 guida la smobilitazione dei paramilitari, a cui il governo promette enormi sconti di pena in cambio della consegna delle armi. Grazie alla legge di «giustizia e pace», i primi 40 anni che il Mono dovrebbe scontare in carcere diventano appena 8. E nel 2008 il pentito viene estradato in Georgia, negli Stati Uniti, che gli danno 15 anni per traffico internazionale di droga. La pena negli Usa finisce a marzo scorso, ma la Colombia lo rivuole: secondo il Tribunale Superiore di Bogotá deve ancora rispondere di 11 mila delitti tra cui 588 omicidi, e raccontare molto dei legami tra narcos e politica (Uribe compreso). I colombiani però commettono un grave errore procedurale nella richiesta: così l’avvocato di El Mono chiede che venga portato in Italia, e gli Stati Uniti devono acconsentire. Qui lo aspettano le Procure di Catanzaro e Reggio Calabria, per capire di più dei suoi rapporti con le ‘ndrine. Ma il presidente colombiano Duque si dice pronto a ricorrere «ai principi di giurisdizione universale per crimini contro l’umanità» purché i massacri dell’italiano non restino impuniti.
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