Reato di abuso di ufficio: giusta l’abrogazione?
| di Nicola SuadoniIl reato di abuso di ufficio è disciplinato dall’art. 323 c.p. e punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell’esercizio delle sue funzioni, produce un danno o un vantaggio patrimoniale che è in contrasto con le norme di legge.
Il bene giuridico tutelato è il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, a parte la trasparenza dell’azione amministrativa.
La condotta delineata dall’articolo 323 del codice penale consiste nel compimento di un’azione, relativa alla funzione o al servizio svolto, posta in essere in violazione di legge, nell’inosservanza di obblighi di astensione tipizzati dalla stessa fattispecie penale o da altre fonti normative.
Per la realizzazione del delitto la norma richiede la configurazione di due eventi alternativi:
un ingiusto vantaggio patrimoniale, che il pubblico agente procura a sé o altri, oppure un danno ingiusto arrecato a qualcuno.
È anche necessario che l’autore si rappresenti e voglia la condotta e gli eventi menzionati nella forma del dolo intenzionale.
Il vantaggio patrimoniale è rappresentato da qualsiasi vantaggio suscettibile di valutazione economica come l’attribuzione di un posto di lavoro.
Il danno è definito come ingiusto quando comprende sia il danno patrimoniale sia il danno non patrimoniale.
Nel corso del tempo sono sopravvenute varie riforme relative a tale tipo di reato: innanzitutto possiamo citare la l. n. 86/1990 e la l. n. 234/1997, che hanno sostituito quella che veniva considerata una sorta di “norma penale in bianco”, con una nuova formulazione dell’art. 323 c.p. che subordina l’illecito penale al verificarsi di determinate condotte che intenzionalmente procurano un danno ingiusto o un ingiusto vantaggio: in altri termini, solo la condotta produttrice del danno o dell’ingiusto vantaggio potrà integrare il reato de quo, e non qualsiasi generica antidoverosità.
La legge n. 190/2012, nell’ottica di una generale lotta alla corruzione nella PA ha previsto un aggravamento di pena per la fattispecie in analisi.
Più di recente, sull’art. 323 c.p. è intervenuto l’art. 23 del decreto legge n. 76/2020, che ha delineato gli attuali contorni del reato.
La predetta riforma, lasciando contorni certamente non nitidi, muta l’elemento materiale che perfeziona il delitto di cui all’ art 323 c.p., il quale deve essere realizzato nello svolgimento delle funzioni del servizio, e consiste ora[11]:
- a) Nella violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità.
oppure, in alternativa, si realizza
- b) mediante l’inosservanza di un obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti[12].
La nuova condotta introduce tre novità che la compongono e che hanno la finalità di circoscrivere e comprimere l’area penalmente rilevante dell’abuso d’ufficio.
Questi elementi sono:
- Il richiamo a “specifiche regole di condotta”;
- la provenienza di regole che siano “espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”;
- l’esclusiva rilevanza delle regole di condotta dalle quali “non residuano margini di discrezionalità”
E’ evidente che l’art. 323 c.p., nonostante gli sforzi per precisarne il contenuto, è stato spesso soggetto a letture forzate che hanno, di fatto, neutralizzato gli interventi del legislatore.
Nella prassi, infatti, si sono individuati efficaci grimaldelli argomentativi per eludere le indicazioni impartite dal legislatore, che hanno consentito di continuare a procedere per abuso d’ufficio a buon ritmo (nel 2016 le iscrizioni erano circa 8000, nel 2021 oltre 4800).
Ad oggi il sostanziale svuotamento, operato in sede giurisprudenziale, della portata innovativa – in senso restrittivo – della riforma del reato di abuso d’ufficio adottata nel 2020 ha fatto riemergere la carenza di tipizzazione della fattispecie delineata dall’art. 323 c.p., alimentando pressioni e spinte, soprattutto da parte degli amministratori locali, verso un’abrogazione secca della disposizione, nella convinzione che solo così potrà essere superata la c.d. “sindrome della firma”, fenomeno riconosciuto anche dalla Consulta.
La soluzione radicale, sposata per ragioni di opportunità politica e non senza contrasti interni dal Governo con il recente d.d.l. Nordio, solleva più di una perplessità apparendo in contrasto con gli obblighi assunti dall’Italia in ambito sovranazionale (ONU, UE) e suscettibile di essere frustrata da possibili riespansioni di altre fattispecie in sede giurisprudenziale. In attesa della decisione del Parlamento, occorre chiedersi se l‘abrogazione del reato di abuso d’ufficio, senza al contempo risolvere le ulteriori cause che sono all’origine del fenomeno, potrà rivelarsi soluzione definitiva e idonea a superare la “paura della firma”.
L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri nella riunione del 15 giugno 2023 di un d.d.l. a iniziativa del Ministro della Giustizia Carlo Nordio palesa la scelta governativa orientata verso una soluzione radicale del fenomeno della c.d. “sindrome della firma”, che paralizzerebbe gli amministratori, in particolare i sindaci. La causa di questa “paura” viene ricondotta alla scarsa determinatezza della fattispecie di abuso d’ufficio e quindi alla scarsa prevedibilità e conoscibilità delle condotte punite dalla disposizione di cui all’art. 323 c.p. La riformulazione operata dal legislatore del 2020 con un provvedimento emergenziale giustificato dalla pandemia in atto non aveva risolto il problema, non avendo costituito idoneo baluardo al controllo del giudice penale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Nel corso del dibattito parlamentare e dottrinale sono emersi numerosi spunti critici sulle possibili conseguenze delle diverse soluzioni prospettate dai d.d.l. già pendenti, che avevano fatto dubitare alcune componenti della maggioranza di governo sull’opportunità della soluzione radicale, in particolare per il paventato contrasto con gli obblighi derivanti dalla convenzione ONU in materia di anticorruzione e dalla normativa europea. L’opzione per l’abrogazione secca appare frutto di una scelta politica sofferta, forse anche agevolata da spinte emotive.
Il disegno governativo si inserisce comunque nel dibattito in corso in Parlamento, al quale spetterà adottare la soluzione definitiva.
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