Riflessioni sulla “Cappella” a San Vito di Camerota
| di Angelo GentileNel giugno 1996 espletati gli Esami di Licenza Media per gli alunni di Camerota Capoluogo quale Presidente della Commissione, affrontai l’argomento cappella di San Vito con la professoressa di lettere Grazia Pomarico e con il professore di educazione tecnica Salvatore Calicchio perché un alunno durante il suo colloquio aveva parlato dei monumenti presenti in Camerota e aveva citato la cappella. I due docenti mi diedero indicazioni (non avendola io mai vista, al contrario di altre chiese) per raggiungerla essendo essa vicinissima alla sede degli esami, anzi il prof Salvatore Calicchio si offrì gentilmente di mostrarmi il sito che si trovava, in prossimità della scuola Angelo Poliziano.
La “cappella” risultava scavata nel tufo e vi si accedeva, dopo breve salita, attraverso un’apertura senza alcuna porta, all’interno si notavano sei nicchie, due a dx, due a sx e due sulla parete di fondo. Queste ultime intramezzate da una specie di altarino, dove si poteva notare qualche simbolo cristiano. Il locale squadrato è ricavato sotto un terrazzamento, poco discosto dal monastero dei Cappuccini. Alla domanda di cosa poteva essere risposi immediatamente, memore di due esperienze pregresse, una da divulgatore storico e l’altra da storico. Ricordavo, infatti, di aver visto simile struttura a nicchie in occasione di un mio intervento quale guida, richiesta, pro amici di Modena in visita ad Ischia: li accompagnai tra l’altro al Castello aragonese e poi al Convento delle Clarisse ed alla sua chiesa dell’Immacolata, fondato nel 1575 dalla vedova d’Avalos per ospitare le figlie delle famiglie napoletane nobili, destinate a non sposarsi per non disperdere il patrimonio fondiario. Sotto la struttura cristiana potei far visitare agli amici (qualche signora rimase sconvolta) il famoso locale del “putridarium” ovvero scolatoio cioè un luogo appositamente previsto dove i cadaveri delle monache venivano posti, seduti, in nicchie. Al centro della seduta un foro che serviva per il deflusso dei liquidi, raccolti in appositi vasi di argilla, in napoletano “cantarelle”, dal greco “cantharus”. Successivamente le ossa erano raccolte, pulite, esposte al sole per renderle bianche e, finalmente, sepolte negli ossari. Quindi doppia sepoltura a salma ormai essiccata. Il luogo veniva quotidianamente visitato dalle monache per riflettere sulla caducità della vita secondo il detto della Genesi (3,19) “Polvere sei e in polvere tornerai”.
Il significato della prima sepoltura nello scolatoio: il passaggio rituale dell’anima prima di salire nel Regno dei Cieli, era, cioè, una specie di Purgatorio. E la stessa scolatura dei liquidi indica la purificazione del corpo dalla carne, il corruttibile dell’esistenza umana, la liberazione finale prima di accedere in Paradiso. La prima sepoltura, insomma, è necessaria per espiare i peccati commessi durante la vita. Il corpo seduto nella nicchia ritrova il proprio contatto con se stesso, senza passioni o impulsi. Del resto la sedia è associata al significato di potere o anche di guida. A parte Ischia simile cultura è propria della cultura napoletana. Famose sono le catacombe di San Gaudioso complesso ipogeo sotto la Basilica di S. Maria della Sanità, ma anche le catacombe di san Gennaro o l’ossario delle Fontanelle, tutte in Napoli. Il termine dialettale “puozzi scolà” equivale a morire e quindi essere messo a scolare, ed è usato anche da noi; altro termine collegato “sciattamuorto”, ovverosia il becchino, ma con mansioni particolari, cioè era la persona che praticava fori nel cadavere posto nella nicchia, seduto o in posizione eretta, per facilitare la fuoriuscita dei liquidi ed affrettare l’essiccazione. Usanze queste che valicano i secoli, ma che sono arrivate sino a noi anche con le sole parole.
Altra esperienza, nelle vesti questa volta da storico, l’ ebbi a fine anni Ottanta allorchè su richiesta urgente del titolare di una parrocchia, mi recai in una chiesa del Basso Cilento, distante alcuni chilometri da Camerota. Durante lavori di ristrutturazione era comparso un vano ipogeo e il parroco mi poneva interrogativi. In quel caso si potevano osservare i risultati della cosiddetta doppia sepoltura in modo inequivocabile ed oggettivo. Questo grazie al fatto che il manufatto ben conservato delle nicchie/scolatoio era stato interrato per decenni e venuto alla luce per lavori alla struttura sovrastante, quindi intatto e ancora con scheletri ben conservati, deposti- accatastati in altro piccolo locale (altezza 80/85 cm circa) sottoposto al primo, accessibile tramite altra botola nel pavimento. La chiesa era quindi su tre livelli, quello superiore era il vero manufatto religioso frequentato dai fedeli per i riti, il sottoposto era la sepoltura a nicchie e ancora più giù l’ossario. Dalle scarpe ivi rinvenute si poteva desumere l’epoca, il ‘700. C’erano anche le bottigline chiuse e il relativo foglietto forse riportante il nome del de cuius (si era soliti fare così in tutti quei cimiteri con pochi spazi), ma non volli aprirle per non danneggiare lo scritto.
Ritornando alla “cappella” di san Vito, nel lontano 1996 non mi fu possibile osservare bene le nicchie per la presenza di rovi e soprattutto piante di ortiche che mi impedirono l’ingresso completo (non ero attrezzato) perché volevo osservare l’eventuale resto di sedute lapidee o lignee nelle sei nicchie e ancora osservare bene l’altarino centrale e i graffiti.
Da quanto sopra detto desumo che la cappella di san Vito non sia altro che uno scolatoio di pertinenza e/o servizio al Monastero Cappuccino di Camerota, collocato, infatti non lontano dallo stesso, tanto da evitare i fastidi degli effluvi cadaverici, ma vicino per visite e necessarie preghiere dei confratelli. L’unico dubbio potrebbe essere se la stessa cappella-sepoltura era utilizzata da altri, alludo alle famiglie notabili di Camerota. A mio avviso, per sciogliere questo dubbio basterà una ricerca cartacea all’uopo indirizzata e/o motivata ancorchè lunga.
Dott. Prof Angelo Gentile, Già tutor per i docenti di storia, ricercatore storico e pubblicista.
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