Sandor Márai, Napoli e “Il sangue di San Gennaro”
| di Antonella CasaburiÈ ambientato a Napoli uno dei più affascinanti e meno noti romanzi di Sandor Márai: “Il sangue di San Gennaro”. Nell’Ungheria della seconda guerra mondiale i più grandi letterati, ridotti al silenzio, riparano esuli all’estero, dando il via a una diaspora crescente: Ferenc Molnár, Lájos Zilahy, e Sandor Márai. Sandor Márai lasciò volontariamente l’Ungheria per fuggire il comunismo, insieme al figlio e alla moglie di origini ebraiche.
Márai aveva già pubblicato, senza successo in Patria, il romanzo “A gyertyák csonkig ègnek” (it. Le braci), il libro che gli ha poi dato fama mondiale. Fama giunta solo dopo la morte per uno spietato scherzo del destino, o forse per il volere dell’editoria, come capita spesso ai più grandi. Scrittore oggi riconosciuto come uno dei più importanti intellettuali magiari, dalla Svizzera Márai riparò in Italia: a Milano, per poi fermarsi a Napoli, dove visse in condizioni precarie in una casa di Posillipo dal 1948 al 1952.
Márai restò affascinato da Posillipo e dai suoi abitanti con i quali, s’accorse, aveva molto in comune. E ne scrisse in questo libro, che è così diverso da tutti gli altri. Pubblicato per la prima volta in Germania nel 1957, il romanzo di Posillipo, come amo definire “San Gennaro vére”, passò inosservato. Fu poi nuovamente pubblicato nel 1965. Ne “San Gennaro vére” ( it. Il sangue di San Gennaro) Márai tratteggia con grande maestria e minuzia di particolari l’impotenza fiera, rassegnata e orgogliosa di donne, uomini e bambini; vite in perenne attesa di opportunità, fra interminabili chiacchiere, liti furibonde e lutti urlati; e la speranza nel miracolo, nonostante tutto, nonostante la realtà cruda e inappellabile, per la gente di Posillipo come per un esule che ha perso l’identità.
“Il sangue di San Gennaro” è un romanzo fortemente autobiografico. Ritengo che sia fra i più autobiografici di Márai: un romanzo in cui si legge tutto il dolore dell’esilio, seppure tra le vie piene di vita in quella strada che guarda a Marechiaro; un romanzo in cui il dramma della morte cala sull’autore come una scure. La dedica del libro, intensa e commovente, è all’Italia. “A Pasqualino, che aveva sei anni e ogni / mattina portava giù l’immondizia / Al pescatore monco, perché metteva a tacere il / mare /A Santo Strato, perché proteggeva il palazzo e / i malati / Ai fiori /Agli animali /Al mare / Ai poveri di Posillipo / All’Italia”. Un volume che nella prima parte racconta vita vera nei bassi, feste per celebrare il ritorno di un migrante, giovani guariti dal tifo, la forza corale nella fede, nel miracolo, che è l’unica possibilità. E poi ci sono questi due profughi, una donna e un uomo, senza nome e senza origini, che misteriosamente vanno a vivere a Posillipo. Stranieri tormentati, esuli che hanno perso la madre patria e la lingua madre, e quindi ogni cosa. Nella seconda parte l’esilio e la migrazione vengono urlati da una voce straziata, quella dell’autore; emergono con prepotenza, e si rincorrono, profetiche e strazianti parole che rimandano, e portano, al suicidio.
Márai, che si sentirà straniero ovunque, che vivrà fortemente il legame con il proprio nucleo familiare, non supererà la morte della moglie, e poi dell’unico figlio; e si suiciderà in California il 21 febbraio del 1989. A 35 anni dalla morte di Sandor Márai, “Il sangue di San Gennaro”, romanzo di Posillipo, testimonia il legame profondo fra il grande scrittore ungherese morto esule e l’Italia, che egli tanto amò.
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