Spartaco, l’eroe ribelle che combatté per la libertà nel Cilento
| di Redazionedi Giangaetano Petrillo
Il condizionale è d’obbligo quando si parla di storia, ma esiste qualcosa che potrebbe legare il nostro territorio – il Cilento –, Stanley Kubrick, Kirk Douglas e Karl Marx, che lo definì addirittura “uno dei migliori protagonisti della storia antica e un genuino rappresentante dell’antico proletariato.” È Spartaco, il famoso gladiatore che riuscì a sconfiggere varie volte le temute milizie romane con un esercito di schiavi. Una figura storica divenuta leggenda, un eroe che lotta per la libertà contro forze immensamente superiori, prive però di una spinta ideale. Kirk Douglas ha dato il volto, e anche il possente fisico, all’audace trace, mentre il genio e l’arte di Kubrick ne progettava l’ideale ambientazione cinematografica – per chi ancora non ha visto il film del 1960 scritto da Dalto Trumbo, è l’occasione per farlo – e Marx ne faceva un esempio per la sua lotta proletaria, il Cilento, molto probabilmente, è stato il palcoscenico dell’ultimo atto di quella che fu la terza guerra servile romana. Nel corso dei secoli le sue imprese sono state raccontate, e romanzate, innumerevoli volte, ma le fonti storiche non sono poi così ricche di informazioni sulla sua vita, e nemmeno sulla sua morte. Quasi certamente fu ucciso in battaglia, nell’aprile del 71 a.C, e non crocifisso lungo la via Appia, come mostrato, a esempio, nel film con Douglas. Nonostante tutto, come tutti quelli degli uomini leggendari che hanno scritto le cruciali pagine della storia, il nome di Spartaco è rimasto indelebile nel libro del tempo. Dopo una vita trascorsa con le armi in pugno, la morte di questo ex ausiliario dell’esercito romano prima e gladiatore dopo, a distanza di secoli è ancora avvolta nel mistero. Dove è stato ucciso realmente quest’uomo che alla guida di settantamila uomini per ben tre anni dal 73 al 71 a.C. non fece dormire certamente sonni tranquilli ai senatori di Roma? E soprattutto, chi era questo Spartaco? Malgrado Marx voglia presentarcelo come profeta e anticipatore della lotta proletaria, di quegli ultimi che riscattano la propria condizione di schiavi, Spartaco non era certamente un proletario, ma apparteneva probabilmente a una famiglia nobile che viveva in Tracia, una regione storica fra le odierne Grecia, Bulgaria e Turchia. Per qualche tempo fece parte dell’esercito romano, ma poi disertò, forse perché incapace di assoggettarsi alla rigida disciplina militare. Dopo essere stato catturato e ridotto in schiavitù, finì a fare il gladiatore nell’Anfiteatro di Capua, dove era sorta la prima scuola di gladiatori. Proprio dalla caserma della scuola gladiatoria di Capua, di Lentulo Batiato, per sua mano ebbe inizio la terza guerra servile contro Roma. Con un gruppo di compagni riuscì ad evadere dalla palestra, conseguendo i primi successi, come la battaglia del Vesuvio, dovuti in realtà, alla scarsa preparazione degli uomini mandatigli contro per catturarlo. Infatti, nei primi tempi successivi alla sua fuga, i manipoli romani erano composti da uomini reclutati nei villaggi non particolarmente addestrati all’uso delle armi e inesperti a qualsiasi tattica militare. Al contrario, Spartaco si rivelò un abile stratega, forte della sua esperienza nei ranghi militari romani, in cui apprese le tattiche di guerra, conoscendone anche i punti deboli. Si deve considerare inoltre anche la sua abilità nell’uso delle armi essendo addestrato insieme ai suoi compagni a combattere come gladiatore. Fu questa per Spartaco l’arma vincente, che gli consentì di vincere molte battaglie anche se, invero, non riuscì ad imporre ai suoi uomini la tecnica di combattimento tipica delle legioni di Roma. Strada facendo, le file di Spartaco, che comandava i ribelli insieme a due Galli, Enomao e Crixus, andavano ingrossandosi sempre più. Gli schiavi delle campagne, ma anche liberti, contadini e pastori poveri si unirono ai gladiatori, specialmente dopo che questi avevano sconfitto facilmente le legioni di Gaio Claudio Glabro prima, e di Publio Varinio dopo. Spartaco continuò a liberare schiavi nelle campagne, razziando e distruggendo anche molti villaggi del Sud Italia, mentre Roma iniziava a preoccuparsi poiché l’esercito di Spartaco contava ormai 40.000 persone. Poi, come spesso accade tra chi combatte dalla stessa parte e con gli stessi scopi, i ribelli presero strade diverse, con Spartaco che, non approvando l’estrema violenza degli ex-schiavi galli e germani, si diresse verso nord, mentre Crixus condusse i suoi fedeli in Apulia – l’odierna Puglia –, dove fu sconfitto dal Console Lucio Gellio Publicola, che poi si diede all’inseguimento di Spartaco, mentre l’altro Console, Clodiano Lentulo, arrivava da nord. Gli spartachistisbaragliarono le legioni di entrambi, e poi anche quelle del governatore della Gallia Cisalpina. A quel punto, Spartaco aveva la strada aperta verso le Alpi e la libertà, in territori ancora relativamente poco romanizzati. Invece, per motivi che la storia non conosce, il gladiatore tornò indietro, verso Sud. I ribelli giunsero quindi in Calabria, progettando di passare in Sicilia, per unirsi a una rivolta di schiavi che infiammava all’epoca la Trinacria. Ma non avevano fatto i conti con il nuovo condottiero dei romani, Marco Licinio Crasso.Se fin qui alcune fonti riescono a restituirci un’immagine del ribelle trace, possiamo certamente affermare che nessuna fonte storica indica il punto preciso dello scontro finale, se non le memorie degli storici di allora come Plutarco, Strabone, Sallustio, Appiano e Oronzio che citano il fiume Sele e la Lucania quale teatro dello scontro finale. Ma come è giunto Spartaco nei nostri territori dopo aver raggiunto la Calabria? Presumibilmente in ritirata dall’Aspromonte, Spartaco, per motivi tattici smembrò il suo seguito in vari reparti, per poi riunirlo prima dello scontro finale. Gli uomini ormai stanchi, demoralizzati, ormai consapevoli dell’imminente disfatta marciavano reduci da una sanguinosa sortita, difatti in una notte buia e tempestosa riuscirono, nonostante ingenti perdite a forzare lo sbarramento fortificato romano, nei pressi dell’istmo di Catanzaro, ordinato dal proconsole Marco Licinio Crasso inviato da Roma impedirgli la fuga verso nord. Se le prime battaglie vittoriose avevano galvanizzato le frange più estremiste dell’esercito spartakista che premevano addirittura di attaccare Roma, ora il precipitare degli eventi causavano una spaccatura in seno ai comandanti ribelli, che contemplavano altre strategie di lotta. In tutti i casi Spartaco si sarebbe sempre imposto valutando bene le sue mosse. Attaccare Roma sarebbe stato un atto irrealizzabile, come era impossibile poter continuare la fuga all’infinito con un seguito di migliaia di combattenti che dovevano ogni giorno sopravvivere nascondendosi, difendersi e nello stesso tempo sfamarsi. E’ possibile dunque che qualche reparto abbia deciso di combattere o fuggire per conto proprio non riconoscendolo più come capo. Dopo essere fuggito dalla Calabria Spartaco progettò la fuga oltre l’Adriatico dirigendosi a Brindisi – dopo il precedente tentativo fallito di raggiungere la Sicilia a causa del tradimento inaspettato dei pirati cilizi che si erano offerti di aiutarlo –. Venuto a conoscenza però della presenza in quel porto dell’arrivo di altre truppe romane provenienti dalla Macedonia, sarebbe stato obbligato a ripiegare verso la Lucania, attraversando il Vallo di Diano e raggiungendo probabilmente gli altopiani di Serre e dell’Alto Calore. Ancora oggi vi sono località sul Fiume Calore, che ricordano il suo nome, come ad esempio Castelcivita, con il Ponte di Spartaco, e le suggestive grotte, in cui la tradizione popolare tramanda che i ribelli spartachisti abbiano trovato ricovero, ed infine le Gole di Tremonti in tenimento del Comune di Giungano, fra Capaccio e Trentinara, nelle cui gole si sarebbero accampati altri reparti. E’ difficilmente ipotizzabile dunque che Spartaco, da buon stratega, abbia deciso di scoprirsi proseguendo sprovvedutamente, la marcia con un seguito esausto, abbandonando quei territori che gli offrivano l’unica e valida possibilità di difesa, in cui nessuna legione romana avrebbe osato avventurarsi. D’altro canto avrebbe dovuto guadare il Sele mentre da Nord – e ne era al corrente – iniziavano a confluire provenienti dall’Hispania le avanguardie Romane al comando di Gneo Pompeo Magno. Proprio in territorio di Altavilla – presumibilmente nei pressi di Borgo Carilla – ipotizziamo che i genieri romani abbiano allestito un ponte galleggiante su un tratto del Sele, affinché i reparti militari l’avessero attraversato agiatamente con i viveri, gli stallaggi, gli armamenti e quant’altro necessita per gli accampamenti provvisori, gli assedi e i combattimenti a medio e lungo termine. E qui entra in gioco un altro fattore importante a favore delle truppe romane, la tecnica di combattimento. Quello romano nei secoli è stato un modello di esercito fra i più invincibili e formidabili della storia che grazie a elaborate tecniche di difesa, avanzamento, attacco e accerchiamento del nemico usciva quasi sempre vittorioso sul campo nonostante a volte si trovasse in inferiorità numerica. Queste strategie militari necessitavano di due fattori importanti, si preferiva di non affrontare il nemico su di alture o dislivelli di particolare rilevanza o in presenza di ostacoli. Non a caso Marco Licinio Crasso, da buon stratega, in Calabria, territorio aspro e montuoso, per non cadere vittima delle tecniche di guerriglia dei ribelli, si astenne da qualsiasi attacco o inseguimento, profferendo tattiche logoranti di assedio e di blocchi, al contrario di inutili manovre militari fallimentari che portarono alla disfatta i suoi predecessori. In virtù di questo ragionamento non sarebbe credibile l’ipotesi che Pompeo e Crasso fossero talmente ingenui ed inesperti da lanciare le loro truppe all’assalto in luoghi impervi, esponendole a probabili imboscate con gravi ed inutili perdite, come appunto le Gole di Tremonti o i territori rocciosi dell’alto Calore e dell’alto Sele. Quindi considerata la geografia del territorio e l’ordinamento dello scacchiere dei due eserciti in campo, l’unico luogo dove verosimilmente si sarebbe scatenata l’ultima battaglia di Spartaco resta la Piana del Sele in particolar modo i tenimenti di Altavilla Silentina ed Eboli. Ad avvalorare il territorio di Altavilla Silentina quale teatro del campo di battaglia vi è il ritrovamento di frammenti di armature, corazze riconducibili proprio all’epoca degli eventi che stiamo narrando. Spartaco era ormai consapevole che prima o poi la resa dei conti sarebbe giunta trovandosi a combattere, al contrario delle prime battaglie, contro militari veterani esperti nell’uso delle armi e preparati finanche a quelle operazioni di guerriglia che fino ad allora gli avevano consentito di riportare importanti vittorie. Inseguito dal meridione dalle legioni di Crasso, atteso da quelle di Gneo Pompeo Magno a Nord e da Est da cui avanzavano quelle provenienti dalla Puglia, fu una mossa obbligata uscire dai nascondigli montani per poi scendere nella pianura del Sele. Siamo giunti ormai nell’ Aprile del 71 a.C. Possiamo immaginare la scena con gli ultimi eroi di un sogno ormai prossimo a svanire che trascorrono le loro ultime ore consumando il loro ultimo pasto, riposando e controllando le armi per poi radunarsi intorno al loro capo ad ascoltare quello che sarà l’ultimo discorso. Poi la lenta discesa verso il luogo dello scontro finale, lo schieramento dei due eserciti e il successivo inizio del macello sulla sponda sinistra del Silaros. Appiano scrive che la carneficina fu di proporzioni tali da impedire la conta dei caduti. E’ ovvio che uno scontro che vede la contrapposizione tra circa 120mila Romani e 70mila ribelli si combatta in focolai accesi in un’area di svariati kmq e che coinvolga inevitabilmente anche altri tenimenti fino al limitare dell’alto Tanagro e le zone adiacenti le sorgenti del Sele in provincia di Avellino, dove gli ultimi superstiti della battaglia cercarono di trovare scampo nei valichi e gli anfratti montuosi, ma furono inseguiti e catturati, per poi essere torturati e crocifissi per ordine dello stesso Crasso, come monito contro future ed eventuali insurrezioni contro Roma, la via Appia accolse pietosamente l’agonia e gli ultimi respiri di seimila schiavi giustiziati in nome di un sogno svanito e di una libertà agognata e mai raggiunta. Come abbiamo accennato il suo corpo non fu mai ritrovato e riconosciuto per la grande quantità di colpi di spada e di lancia che avrebbero dilaniato le sue carni durante la pugna mortale, tanto da sfigurarlo e renderlo irriconoscibile fra le migliaia di caduti sul campo. Resta comunque una minima possibilità che Spartaco in persona non abbia mai combattuto l’ultima battaglia nella piana del Sele, forse riuscì a fuggire o che sia stato ucciso in altre circostanze, pertanto le forze ribelli in campo potrebbero essere state reparti privi della sua guida, come quelli periti nella battaglia sul Gargano agli ordini di Crixus. Ma conoscendo il suo carattere deciso e leale possiamo dedurre che non abbia mai abbandonato il suo seguito al suo destino e che sia morto in battaglia. Lo storico Plutarco narra che prima di scontrarsi con Crasso, Spartaco abbia deciso di combattere appiedato uccidendo il suo cavallo in quanto avrebbe dichiarato che se avesse vinto ne avrebbe avuti quanti ne avesse voluto ma se avesse perso non sarebbe caduto in tentazione di fuggire.
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