Ugo Intini, l’intervista al collaboratore di Craxi ed ex direttore de ‘L’Avanti’
| di Redazionedi Giangaetano Petrillo
È come fare un salto indietro nel tempo, ritornare tra mura ormai chiuse di sedi di partito e di quotidiani che avevano il pressante impegno di formare quella che sarebbe stata in futuro la nuova classe dirigente della politica italiana. E se questo salto nel tempo fosse reale, molto probabilmente li avremmo trovati in una di queste sedi, precisamente in quella della direzione dell’Avanti!, in piazza Cavour a Milano. Dicevamo, li avremmo visti lì, seduti a dirigere un giornale e un domani, sempre insieme, a dirigere un partito, e l’Italia. Il partito era il Partito Socialista. L’uno era Bettino Craxi, segretario e presidente del Consiglio; l’altro è Ugo Intini, fra i più stretti collaboratori di Craxi, direttore dell’Avanti! e uno dei maggiori dirigenti, tuttora, del Psi. Parlare oggi di segreterie e dirigenti di partito, in un universo in cui ad imperare sono gli algoritmi e i social media manager, sembra alquanto pretestuoso o saccente verso i tempi che cambiano. Oggi siamo abituati, soprattutto le generazioni nate dopo il crollo della prima Repubblica, a concepire il web come lo spazio, il luogo deputato alla discussione politica. Un tempo tutto ciò era inconcepibile, perché la discussione era racchiusa nelle mura delle diverse sedi e articolazioni varie di partito sparse in tutta la penisola. Esistevano sì delle “tribune politiche”, ma avevano un loro spazio, la Tv, e degli orari predefiniti. Oggi invece siamo abituati alle dirette streaming che continuamente aprono confronti, e il più delle volte scontri, tra diversi esponenti politici.
Onorevole Intini, anche se discuteremo di altro, non possiamo non iniziare quest’intervista senza fare riferimento a quanto sta accadendo. Voglio porle particolarmente una domanda, oltre a chiederle un suo pensiero; molti sostengono che esisterà un prima e un dopo Coronavirus, sottintendendo che il mondo non sarà più com’è oggi. Secondo Lei è corretta questa predizione?
La realtà stupisce spesso e proprio non saprei. Vedo però uno scenario potenzialmente disastroso. Si è parlato molto in passato del “cigno nero“ e cioè di un evento imprevedibile che cambia il corso degli eventi. Si tratta della “teoria dell’incertezza” elaborata dal matematico libanese Nassim Taleb in un libro del 2007. Ecco, il cigno nero è arrivato. Potrebbe spingere l’Italia fuori dall’euro, perché il nostro debito, già pesantissimo, potrebbe diventare insostenibile. Il cigno nero potrebbe far arretrare la globalizzazione, il libero scambio e la cooperazione internazionale. A tutto ciò da anni già spingono i sostenitori della “chiusura” contro quelli della “apertura”. Da Trump ai sovranisti – che poi significa “nazionalisti” – europei. Il cigno nero può dare la spinta decisiva. Un cigno nero simile è già comparso con la prima guerra mondiale e ha posto fine alla belle epoque. Anche oggi i nazionalismi sono in ascesa. Potremmo ricordare i decenni passati come la nostra belle epoque.
Molte critiche hanno sollevato le parole della neo-presidente della BCE, Christine Lagarde, riguardo allo Spread. Oltre alla questione di merito, pensa che l’Europa possa fare esperienza di questo momento?
Qui torniamo al cigno nero e ai suoi effetti sull’euro. Lo spread con il Bund tedesco, dopo le parole della Lagarde, è arrivato a 330, portandoci sull’orlo del collasso. Poi è ritornato a livelli tollerabili. La Lagarde non è Draghi, non ha ferme convinzioni e seguirà lo schieramento europeo vincente. Quelli che si confrontano sono sostanzialmente tre. Primo. Macron, Sanchez, Gentiloni – e forse la presidente della commissione von der Leyen – sono per la piena solidarietà europea e per un deciso passo avanti verso l’unità politica. Siamo in guerra? Gli Stati emettano dunque “corona bonds”, ovvero “buoni del tesoro di guerra“, come si è fatto negli ultimi due conflitti mondiali. Il nuovo debito di ciascuno sia garantito da tutti: anche quello italiano – non importa se il debito pregresso è già enorme -. Secondo. Sul fronte opposto, all’interno della Bundesbank, a Vienna e ad Amsterdam, ci sono i rassegnati al cigno nero: il debito italiano era già eccessivo, adesso il virus rende il suo peso insostenibile; l’Italia esca dunque dall’euro prima di portare a fondo tutti quanti. Terzo. La Merkel – ancora incerta – e i leader europei che la seguono faranno pendere la bilancia da una parte o dall’altra. O forse punteranno a una mediazione: l’Italia sia salvata a spese di tutti, ma sia “commissariata” e costretta a scelte “lacrime e sangue”. Naturalmente, bisogna battersi perché prevalga il primo schieramento. Sapendo però che abbiamo molti punti deboli. Chiediamo aiuto dopo aver gettato soldi a palate nel reddito di cittadinanza per i nullafacenti e nel pensionamento anticipato – tra l’altro di quei medici e infermieri che oggi sarebbero preziosi -. Proprio i nostri alleati, a cominciare da Macron, sono stati sempre i più svillaneggiati da quelli che i sondaggi indicano come i futuri governanti dell’Italia: Salvini e Meloni. Conte chiede un piano Marshall per l’Italia. Impara in fretta ed è abile. Ma non è De Gasperi e sino a ieri era alleato di Salvini
Se dovesse realmente esserci un dopo Covid-19, in cosa possiamo intervenire, sia come comunità scientifica che economica e politica, perché si possano prevenire future emergenze simili?
I grandi spesso vedono le cose con un secolo di anticipo. Turati già chiedeva gli “Stati Uniti d’Europa”, ma non solo. Chiedeva anche “in un futuro più lontano”, “gli Stati uniti del mondo”. Oggi tutto è globale: la finanza, innanzitutto, ma anche lo spettacolo, lo sport, la moda, il cibo, persino il crimine. La sola politica e i soli governi sono rimasti inchiodati nei confini nazionali. Per questo spesso non contano nulla e si rendono persino patetici. L’impotenza dei governi nazionali di fronte alle sfide globali – le epidemie come i cambiamenti climatici – dovrebbe aprire la strada, passo dopo passo, verso gli “Stati Uniti del mondo”. Il disastro dovrebbe insegnare. Il mondo è interconnesso: uno starnuto a Wuhan ha travolto tutti i continenti. Forse si capirà che non si deve combattere la globalizzazione, ma globalizzare anche la politica e il governo. Solo in questo modo la comunità scientifica, economica e politica sarà veramente una “comunità” e potrà uccidere sul nascere i “cigni neri”. Quello di oggi e quelli che certamente si ripresenteranno in futuro. Purtroppo è difficile essere ottimisti perché certo non siamo sulla buona strada: Trump ad esempio ha appena cercato di ottenere che un eventuale vaccino al Covid 19 sia assicurato in esclusiva soltanto agli Stati Uniti.
Augurandoci che il tutto passi in fretta, vorrei ora ritornare al tema della nostra intervista.
Lei è stato direttore di un’autorevole quotidiano, dirigente di uno dei partiti più importanti della prima Repubblica, e parlamentare per diverse legislature. Se dovesse tracciare una linea di demarcazione rispetto all’attuale classe dirigente italiana, quale momento individuerebbe della nostra recente storia politica?
Il sistema dei partiti della prima Repubblica era costruito sulle esigenze della guerra – sia pure fredda – tra Est e Ovest. Finita la guerra, nel 1989, doveva essere riformato. Invece è stato distrutto. Anziché la via “riformista”, si è scelta la via “rivoluzionaria”. La “rivoluzione” del 1992-94, è stata la “demarcazione“. Purtroppo la prima Repubblica è stata distrutta senza costruire la seconda – e infatti siamo nel vuoto politico. Le rivoluzioni hanno sempre una pars destruens, ma anche una pars costruens: un progetto. Mani Pulite no. Siamo andati avanti per qualche tempo con il riciclo di pezzi della vecchia classe dirigente diventati “ex”: ex comunisti ed ex fascisti innanzitutto, con l’aggiunta di qualche ex democristiano e – molto meno – di qualche ex socialista. Dal vuoto però non ci siamo più ripresi. Anzi. Con il trionfo elettorale di M5S e l’ascesa della Lega, abbiamo avuto nel 2018 una seconda e persino più devastante ondata distruttiva. In fondo, come ha spiegato Paolo Franchi nel suo ultimo libro “Il tramonto dell’avvenire”, questa seconda ondata rivoluzionaria è figlia della prima, quella di Mani Pulite. L’effetto delle due rivoluzioni populiste sulle istituzioni democratiche è stato a mio parere quasi mortale. Ma qui siamo nel campo dell’opinabile. L’effetto sull’economia non lo è, perché parlano i numeri. I cittadini sono esasperati, avvertono magari confusamente il degrado del Paese. Ma sarebbero ancora più esasperati se conoscessero le cifre precise. Diciamolo con semplicità. Nel 1990, il prodotto nazionale lordo dell’Italia era all’incirca quello di Francia, Gran Bretagna e Germania occidentale – non ancora unificata. Oggi è il 30 per cento in meno. E quasi incredibile, ma è così.
Sentiamo spesso parlare di “personalizzazione” della politica. Questo è un aspetto che, secondo Lei, marca una differenza dalla prima Repubblica?
Un tempo, prima veniva la cultura, poi la politica, infine il potere. Un esempio. Nella seconda metà degli anni ’70, il PSI ha lanciato una grande campagna culturale – soprattutto attraverso il suo mensile Mondoperaio – contro il comunismo. Poi ne abbiamo tratto le scelte politiche. Infine è arrivato, con la presidenza del Consiglio a Craxi, il potere. Adesso c’è solo il potere. Craxi, anche più degli altri dirigenti politici del tempo, aveva una personalità forte e accentratrice. Ma era il prodotto della storia socialista, attraverso una staffetta generazionale: da Turati a Nenni, Pertini e Saragat; fino a lui e ai dirigenti degli anni ‘80. Craxi era il “venditore” di un “prodotto” frutto di un lavoro collettivo e di una storia. Così avveniva per tutti i partiti. E così avviene anche nelle democrazie moderne normali – ancorché tutte in crisi e tutte portate alla personalizzazione. Oggi ci sono soltanto gli “ego” ipertrofici di capi che pensano di dialogare direttamente col “popolo” – inteso come una entità unanime e indistinta – e di “rappresentarlo”. Il che è ridicolo perché, se ad esempio Salvini ottenesse il 30 per cento dei voti, considerando l’astensione, avrebbe il consenso di un italiano su cinque. Altro che parlare “a nome degli italiani”! Gli ego ipertrofici comandano senza neppure salvare l’apparenza di una democrazia interna. Craxi era accusato di autoritarismo, forse anche con qualche ragione – rispetto agli standard del tempo. Ma almeno una volta al mese convocava una direzione del partito che durava come minimo cinque ore, veniva contestato, corretto e alla fine si votava. Faceva andare il piede sotto il tavolo perché si innervosiva. Ma ascoltava e prendeva nota. Come prima di lui avevano fatto Nenni e Turati e come lo aveva educato a fare suo papà – vice prefetto della liberazione a Milano.
Può tradursi come un annichilimento della funzione dei partiti, anche nella selezione della classe dirigente. E quindi venendo meno il pluralismo di partito emerge fortemente il personalismo di un’unica leadership?
Come accennavo, tutte le democrazie tendono alla personalizzazione – per effetto della fine delle ideologie e delle esigenze mediatiche. Ma l’Italia è sempre stata il malato tra le democrazie occidentali. Non per caso la malattia del fascismo è nata in Italia e poi come un virus si è diffusa dappertutto. La personalizzazione da noi è perciò giunta all’estremo. Sino al ridicolo e al grottesco. Siamo arrivati infatti a trasformare in leader un “clown” aggressivo, come Grillo. Che tra l’altro è desaparecido da mesi. Siamo nella tragedia, succede di tutto e lui tace. Ma prima di lui abbiamo avuto Di Pietro. Qualcuno sa di cosa si occupi? Ha mai scritto o detto nella sua carriera politica qualcosa che si possa ricordare? Lo stesso si potrà scrivere di Grillo tra qualche anno.
Lei è stato uno dei più stretti collaboratori del Presidente Craxi. Prima di commentare la sua vita politica e pubblica, vorrei che ci lasciasse un ricordo, invece, personale e privato del Presidente.
Come Nenni e Pertini, Craxi era direttore politico dell’Avanti! e io ero pertanto il numero due: direttore responsabile. Nel 1978, durante il sequestro Moro, il PSI e l’Avanti! puntarono alla trattativa con le Brigate Rosse per liberarlo e rimasero assolutamente isolati. Quasi due anni dopo, con il sequestro del giudice D’Urso, si ripropose lo stesso scontro tra “fronte della fermezza” e favorevoli alla trattativa. Ma questa volta l’esito fu diverso. Le BR chiedevano per liberare il giudice la pubblicazione dei loro comunicati. Craxi – e ne fui entusiasta – decise infine di pubblicarli. Era un venerdì pomeriggio del gennaio 1980. Con un fondo dal titolo “La carta non vale la vita umana”, subito diffuso dalle agenzie, annunciai la pubblicazione. Si scatenò il finimondo. Forlani e Spadolini mi telefonarono che il governo di cui facevamo parte – schierato sul “fronte della fermezza” – sarebbe caduto se non avessi immediatamente bloccato tutto. Craxi era come ogni venerdì in aereo da Roma a Milano: irraggiungibile anche perché allora non esistevano i telefonini. Andai avanti. Ma, quando finalmente riuscii a parlargli, mi fece una scenata tremenda, disse che ero uno scriteriato irresponsabile e non mi parlò più. Dopo qualche giorno, il governo non cadde, finalmente il giudice D’Urso mi informò che sarebbe stato liberato. Lo fece con una sua lettera – fatta trovare dalle Brigate Rosse in una casella postale del centro di Roma, attraverso una telefonata all’Avanti!. Dopo una lunga suspense, lo ritrovarono nel bagagliaio di una Renault rossa identica a quella di Moro. Ma vivo. I giornalisti assediarono come un trionfatore Craxi chiedendogli una dichiarazione. “No-rispose lui-chiedete al direttore dell’Avanti!”. In quel momento – poiché lo conoscevo – , capii al volo che si sarebbe dimesso e mi avrebbe lasciato il ruolo di direttore politico. Il che accadde dopo pochi giorni. Non me ne parlò mai e io non mi permisi mai di parlargliene. Anche così era Craxi.
Molti vedono in Lui l’anticipatore del Berlusconismo prima, e del Renzismo poi. Ha esercitato una forte e autorevole leadership, e in questo forse ha potuto precedere entrambi i successivi Presidenti.
Craxi era un amico personale di Berlusconi, ma diceva sempre che Silvio era un democristiano. Craxi, come Nenni, credeva nella “politique d’abord“ – la politica prima di tutto -, mentre Berlusconi ha sempre parlato di “azienda Italia“. Renzi è diventato famoso come il “rottamatore” dei vecchi dirigenti. Craxi ha sempre avuto una venerazione per gli anziani. A cominciare da Nenni e da suo padre, che era un fedelissimo proprio di Nenni. Tale era la devozione di Craxi per Nenni che – penso senza accorgersene – ne imitava persino i movimenti e il tono della voce. Berlusconi e Renzi attaccano spesso la politica e la “partitocrazia”. Craxi era e amava definirsi un uomo di partito.
Tutt’oggi la sua figura divide molto, d’altronde è stato il primo personaggio politico ad essere così discusso. Contrarre la figura di Craxi esclusivamente agli anni di Tangentopoli, come si è purtroppo soliti fare, rischia di sorvolare invece sulla sua esperienza governativa.
L’esperienza governativa di Craxi è il frutto di quella precedente di partito. Quella che ha rinnovato il PSI e ha portato alla elaborazione di una cultura “liberalsocialista”: sì al mercato, ma anche alla giustizia sociale. Io stesso propagandai il liberalsocialismo con un libro del 1979 (“Lib-Lab”) fatto insieme a un grande scrittore e giornalista liberale come Enzo Bettiza. Nel suo ultimo libro su Craxi, Marcello Sorgi ricorda che Tony Blair gli disse recentemente che i laburisti inglesi hanno imparato il liberalsocialismo dagli italiani. E non solo gli inglesi lo hanno imparato. Siamo arrivati prima dei francesi e dei tedeschi – forse perché avevamo alle spalle il “socialismo liberale” di Carlo Rosselli. Gli spagnoli e i portoghesi poi hanno imparato tutto da noi, anche perché leggevano facilmente l’italiano e i libri sul socialismo erano vietati da Franco e Salazar. Il padre del socialismo spagnolo Felipe Gonzales divideva un ufficetto in via del Corso con il portoghese Mario Soares, maestro di Antonio Guterres – oggi segretario generale delle Nazioni Unite. Come ho raccontato in un recente libro su Guterres, il simbolo stesso del partito socialista portoghese – adesso alla guida del governo – è stato disegnato da un nostro compagno pittore nella tipografia dell’Avanti!, dove si stampava il mensile dei socialisti portoghesi in esilio – poi distribuito clandestinamente a Lisbona.
Cosa ricorda degli anni che hanno seguito Tangentopoli.
Dopo Mani Pulite, Giuliano Amato fu nominato commissario straordinario del partito a Milano. Poi divenne presidente del consiglio e gli succedetti io. La polizia mi scortava da vicino perché per strada non soltanto mi gridavano “ladro”, ma qualcuno minacciava di aggredirmi. Adesso, per strada c’è chi mi ferma e dice che dovrebbe tornare la prima Repubblica, quando si stava molto meglio.
Nonostante tutto oggi il Partito Socialista è l’unico partito che è riuscito a riorganizzarsi anche dopo quell’arresto traumatico. Qual è l’eredità di quegli anni?
La moda del nuovismo ha distrutto i partiti, che tutti hanno cambiato nome, simbolo e bandiera. È un caso unico in Europa. Siamo al punto che la Lega è il partito più antico. Ma il PSI, ancorché piccolo, lo è molto di più: ha oltre un secolo. Abbiamo il compito innanzitutto di tenere viva una grande storia. Che può essere il seme per una sinistra degna di questo nome. Non abbiamo voti per mancanza di visibilità, ma conserviamo una presenza sul territorio non da poco, che i partiti improvvisati non hanno.
Gli anni novanta sono stati anche gli anni dell’Unione Europea. Importanti trattati sono stati siglati proprio in quegli anni. Ultimo la moneta unica, l’Euro, che ha provocato un forte risentimento, tanto da favorire i cosiddetti “estremisti” e “populisti”, oggi in parte ancora al governo dell’Italia e in forte crescita di consensi in diversi paesi europei. Quali sono stati gli errori commessi in questi ultimi vent’anni di integrazione europea?
L’unità europea è avanzata quando alla guida dei rispettivi Paesi c’era un gruppo di amici e di compagni, che si frequentavano da decenni – soprattutto attraverso l’Internazionale Socialista – e si capivano con uno sguardo. Mitterrand, Brand, Helmuth Schmidt, Soares, Felipe Gonzales, Olof Palme. Naturalmente Craxi e il presidente della commissione europea Delors. Lo stesso si può dire delle altre grandi famiglie politiche europee. Si creò l’euro pensando che l’unità politica sarebbe seguita inevitabilmente. E si corse così un rischio che oggi può rivelarsi mortale. Parlando alla Camera nel 2001, subito dopo la nascita dell’euro, dissi testualmente: sulle monete, troviamo la spada – simbolo di una difesa comune -, la bilancia – simbolo di una giustizia comune -, una testa coronata – simbolo della sovranità -. Una moneta non appesa a tutte queste cose si trova appesa al nulla ed è destinata a cadere. Ecco, siamo a questo punto. O si appende l’euro a una politica comune o cade. Un altro errore fu causato dalla pressione interessata degli inglesi che hanno spinto al troppo rapido ingresso dei Paesi ex comunisti: Londra ha voluto così annacquare l’Unione Europea e ritardare la sua integrazione politica. C’è riuscita in pieno. Basti pensare al ruolo del cosiddetto “gruppo di Visegrad”. Per di più – beffa finale – Londra ha scelto la Brexit. Churchill diceva che l’Atlantico è più stretto della Manica. Aveva ragione. La Gran Bretagna è sempre stata in Europa il cavallo di Troia del potere economico americano contrario all’euro.
Si è parlato, prima che giungesse quest’emergenza sanitaria, di una nuova Europa, con la speranza forte di rilanciare un nuovo progetto europeo che determinasse un cambio di rotta. La critica principale che viene mossa all’Europa è quella relativa ai parametri economici e ai vincoli europei.
L’Europa o fa il salto verso l’unità politica o affonda. La crisi da virus farà da acceleratore. Torniamo qui al discorso iniziale. Attenzione però a un fatto. I parametri e i vincoli non sono imposti dagli altri Paesi europei perché sono “cattivi”. Un Paese super indebitato come l’Italia e – da anni – con il più basso tasso di sviluppo dell’OCSE, ha dei limiti a indebitarsi ancora di più. Non perché Bruxelles non vuole. Ma perché non vogliono i mercati, i quali ogni mese devono sottoscrivere i nuovi titoli italiani che giungono a scadenza. Nessuno vuole prestare soldi a chi questi soldi li spende non per investire sullo sviluppo, ma per fare regalie: bonus di Renzi, super bonus di Di Maio – ovvero reddito di cittadinanza -, bonus di Salvini ai pensionandi e così via. Devo tuttavia essere onesto. Se siamo la maglia nera mondiale per lo sviluppo, le ragioni sono molto più profonde: la colpa non è soltanto di una classe dirigente politica pur sciagurata. Vogliamo dirla in modo crudo? Siamo il Paese forse più vecchio del mondo e non si è mai visto che la vecchiaia sia un motore per lo sviluppo. Questo si sa, ma c’è qualcosa di peggio – e di meno noto -. I giovani non solo sono pochi, non solo spesso emigrano: sono i meno istruiti del mondo occidentale. Un Paese di vecchi, con pochi giovani – e poco istruiti – non va lontano. Questo è il tema di un mio libro sulla vecchiaia in Italia – “Dalla lotta di classe alla lotta di classi” -. Ci vorrebbe una grande politica demografica e dell’istruzione. Ma i bambini, ammesso che nascano, non crescono e non arrivano all’università nello spazio di una legislatura. E quindi la grande politica prima citata non interessa ai nostri leader. Loro guardano ai sondaggi, ai titoli dei giornali e ai social delle successive 24 ore. E lì si fermano. Altro che futuro!
Rimane tuttora un sogno gli Stati Uniti d’Europa?
Poteva essere un sogno quando Turati li ha chiesti nel suo primo discorso alla Camera – era il 1896 -. Oggi è una prospettiva concreta, ma resa più difficile proprio da qualcosa che Turati aveva già indicato. Nel 1926, scrisse che gli Stati Uniti d’Europa non sarebbero stati possibili se non si fosse estirpato “il cancro abominevole del fascismo”. Ecco, oggi il fascismo non c’è più. Ma il suo nazionalismo – che ne fu la caratteristica principale e che oggi si chiama chissà perché “sovranismo” – c’è sì. Sempre di più. E proprio il sovranismo dilagante è l’ostacolo all’unità europea. Voglio concludere proprio sull’unità europea. Agli inizi del Novecento, Gran Bretagna, Francia e Germania da sole producevano quasi un terzo della ricchezza mondiale – oggi non arrivano all’8 per cento -. Allora l’Europa aveva un quarto della popolazione mondiale – oggi si avvia ad averne meno del 5 per cento -. E l’Italia non arriva allo 0,8 per cento. All’inizio del Novecento, i nazionalisti potevano forse avere qualche ragione. I sovranisti di oggi no. Oggi solo dei mentecatti possono pensare che un singolo Paese europeo possa contare qualcosa nel mondo. Naturalmente, qualcuno potrebbe domandarsi: e perché mai l’Europa dovrebbe contare qualcosa? Per il nostro interesse, ovviamente. Perché nonostante tutto è ancora una potenza economica al livello di Stati Uniti e Cina. Ma non solo. Dovremmo sempre ricordarci che esiste una forte identità europea. Che è un esempio per il mondo e che dovrebbe renderci orgogliosi. Perché ha in sé una leadership morale. Paradossalmente, noi europei non ce ne accorgiamo più. Ma gli altri sì. Un vecchio amico di Toronto mi ha detto “Noi canadesi siamo americani, certo, ma anche europei. A differenza dei nostri vicini negli Stati Uniti infatti, in tasca non abbiamo la pistola, ma la tessera sanitaria”. Ecco. Tolleranza, no alla pena di morte, diritti: “non abbiamo la pistola”. Stato sociale e solidarietà: “la tessera sanitaria”. Questa è l’Europa. Questi sono i valori – ancora da nessuno al mondo pienamente realizzati – che abbiamo da insegnare. Questo è quanto ha dato all’Europa innanzitutto la tradizione socialdemocratica.
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