Zingari, minacce a «guardie» e politici del Cilento: «Vedete che la vita è breve»
| di Luigi Martino«Finitela un poco…marescià vedete che la vita è breve, si muore, cercate di fare il bravo» e «stai attento che non ti va sempre bene, qualche mio parente potrebbe reagire». Queste alcune delle minacce, anche di morte, che sono state rivolte ai carabinieri dai componenti del gruppo rom sgominato oggi nel Cilento, per cercare di alleggerire la pressione delle forze dell’ordine sulle loro attività illecite. Minacce al sindaco di Agropoli per costringerlo a «evitare che alcuni appartamenti di recente confiscati fossero adibiti a finalità pubbliche» e che venissero «indebitamente assegnati ad appartenenti alla comunità posti di lavoro a tempo indeterminato». Anche di questi atti intimidatori si sarebbe resa protagonista la banda: due famiglie rom, i Marotta e i Cesarulo, tenevano sotto scacco Agropoli. La circostanza è stata resa nota nel corso di una conferenza stampa indetta dopo la notifica di 25 misure cautelari (11 in carcere, 7 ai domiciliari e 7 obblighi di dimora) ad altrettante persone ritenute componenti del gruppo criminale rom. L’episodio risale allo scorso luglio quando, come spiegato dal facente funzione di procuratore della Repubblica di Salerno Luca Masini «fu semi-divelta la porta dell’anticamera da un gruppo di persone che capeggiate da uno dei promotori pretendevano di essere immediatamente ricevuti per avere conto di una serie di condotte doverose che il sindaco di Agropoli stava attuando». Intercettazioni, appostamenti, testimonianze: un lavoro durato mesi.
L’allarme del sindaco
Nel luglio scorso è proprio il primo cittadino di Agropoli a lanciare l’allarme perchè costretto a ricevere, nel proprio ufficio e senza appuntamento, una ‘delegazioni’ della comunità rom che avrebbero voluto evitare che alcuni immobili confiscati, tra cui una villa su cui pende l’ordine di sgombero ma occupata fino a stamattina, fossero destinati a finalità pubbliche. Il primo cittadino scrive ai carabinieri sottolineando come «la notevole propensione di alcuni esponenti di tale comunità ad assumere comportamenti violenti e sopraffattivi è suscettibile di patenti ripercussioni sull’ordine pubblico e sulla sicurezza in generale». «E’ la prima volta – evidenzia il comandante del Ros, Giancarlo Santagata – che viene contestata a una comunità rom italiana l’aggravante del metodo mafioso».
La guerra alle «guardie»
Voleva «fare una guerra ai carabinieri» la banda. Lo ha sottolineato, sempre in conferenza, il pm Antimafia Marco Colamonici. L’obiettivo era cercare di «omettere o alleggerire i controlli del comando carabinieri eseguiti in direzione delle condotte delittuose riconducibili ai componenti del gruppo indagato». «Uno dei principali esponenti del sodalizio – ha spiegato il pm – era riuscito a tenere calmi i giovani del gruppo che, infastiditi da questo attivismo dei carabinieri di Agropoli, avrebbero voluto fare la guerra ai militari». Ma il gruppo avrebbe rivolto minacce anche al coordinatore unico del cantiere di Agropoli della società operante nel settore della raccolta dei rifiuti solidi urbani, al fine «di essere assunti nelle vesti di dipendenti stagionali, di essere adibiti a mansioni ‘gradite’ e di non essere sanzionati per le continue assenze e i costanti inadempimenti commessi nell’esercizio dell’attività lavorativa».
Dove prendevano e dove andavano i soldi
Il gruppo criminale costituito dalle due famiglie si autofinanziava commettendo furti in vetture e in gioiellerie, avvalendosi anche del supporto logistico di alcuni parenti a Biella e Vercelli che, dietro ricompensa, offrivano basi operative in quelle zone. I proventi venivano, poi, riciclati attraverso l’utilizzo di una società che faceva confluire, attraverso l’home banking, le somme di denaro. La banda esercitava un controllo che ha fortemente inciso sul tessuto sociale della cittadina di Agropoli. Attraverso attività tecnico-intercettive e l’esecuzione di servizi dinamici di osservazione, integrati dall’acquisizione di informazioni testimoniali, è stato possibile appurare che gli indagati si sarebbero autofinanziati attraverso l’esecuzione di sistematici furti con destrezza compiuti presso gioiellerie presenti su tutto il territorio nazionale, l’esecuzione di furti all’interno di autovetture ed il riciclaggio dei proventi ottenuti, l’illecita introduzione nei circuiti bancari finalizzata all’accredito fraudolento di somme di denaro. «Siamo partiti da un’attività investigativa sui furti – ha spiegato il comandante provinciale Antonino Neosi – ma siamo riusciti a dimostrare che dietro c’era un’attività che andava ben oltre».
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